Qualche giorno fa, come accade spesso, mi son concesso un fine settimana di svago. Uno di quei fine settimana non pianificati, in cui sai che andrai da qualche parte fuori città, ma non sai dove, quando lasci la scelta della destinazione all’impeto dell’ultimo momento. E così sabato è arrivato e, dopo aver svolto le consuete azioni mattutine, ho:
- consultato le previsioni meteo direttamente sullo smartphone;
- impostato il navigatore verso la meta scelta al momento;
- avviato con un bottone il motore di una comoda autovettura;
- iniziato ad ascoltare un podcast in lingua straniera, scelto da una mia lista pochi minuti prima di partire;
- impostato una velocità fissa di viaggio che si adattava in base a velocità e distanza delle auto che mi precedevano;
- accettato il consiglio del navigatore che in tempo reale mi ha permesso di evitare una coda di 20 minuti sulla strada principale;
- attraversato un confine nazionale senza nemmeno fermarmi un secondo;
- terminato l’ascolto del podcast, ascoltato radio digitale locale (perfetta anche in galleria) selezionata da una lista enorme di emittenti;
- visitato un bel castello, di cui avevo visto gli orari poco prima di mettermi in viaggio;
- parlato con persone di diverse parti del mondo;
- scelto un ristorante in zona dando un’occhiata anche a recensioni, menù e foto;
- arrivato subito a destinazione (sempre grazie al navigatore), cercato velocemente traduzioni e foto/info di alcuni piatti scritti sul menù – anche se poi spesso chiedo consiglio al personale;
- ordinato da mangiare senza curarmi dell’importo finale;
- pagato con una carta di credito, senza preoccuparmi a monte di quanta moneta portarmi dietro – e ricevendo una notifica dalla banca in tempo reale;
- degustato altri prodotti del posto, mai assaggiati prima, in un’azienda lì vicino;
- selezionato un percorso leggermente diverso per il ritorno – applico alla lettera il consiglio di Martha Medeiros nel suo “A Morte Devagar” (“Lentamente muore”).
E capirai, una descrizione semplice di una normale gita fuori porta del fine settimana. Ma cosa c’entra e qual è la risposta alla domanda?
Già, il titolo di questo articolo è un interrogativo, serve una risposta, possibilmente breve, da argomentare. Quindi, qual è il momento migliore per vivere? Questo. Un periodo migliore dei precedenti e peggiore di quelli che verranno. Viviamo nel migliore dei periodi possibili. Non so se ci troviamo nel migliore dei mondi possibili (quelli derivanti dall’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica o nel multiverso, ma lasciamo questi rabbit hole agli scienziati veri) o se quella che stiamo vivendo sia la più bella di tutte le simulazioni. Quello che sappiamo, però, è che mai come in questo momento abbiamo mediamente una combinazione di tranquillità e abbondanza di risorse, almeno per quanto riguarda il mondo occidentale e buona parte delle nazioni emergenti. Non siete convinti? Prendetevi qualche secondo per immaginarvi nel 1999 – vi aiuto: sui grossi monitor a raggi catodici si visualizza Windows 98, con cui Internet Explorer permette di navigare (alla velocità smodata di 56Kbps) su siti pieni di imbarazzanti GIF animate in mezzo a scritte variegate di font e colori che nemmeno un collage su un cartellone di prima elementare; siccome di siti decenti ce ne sono pochi, potete effettuare ricerche su Omnia o Encarta, che però non sono aggiornate in tempo reale, quindi non c’è ancora scritto che Michael Jordan s’è ritirato dalla pallacanestro. Tutto questo ascoltando il CD di Festivalbar 1999: 40.000 lire (riscrivo: “40 mila lire”) per una compilation con brani come “Blue” degli Eiffel 65, quel “Supercafone” der Piotta, ma anche successi internazionali come la nuova scoperta musicale Britney Spears con “…Baby One More Time” – no, non li scaricavate da Napster, perché in quell’anno era appena uscito e ce l’avevano in pochi, oltre al fatto che per scaricare un brano MP3 in qualità suoneria polifonica cantata dallo zio ubriaco ci voleva un’ora. Ah, temete anche che al prossimo capodanno vi si pianterà il PC col baco del millennio e che quindi sarete costretti a tornare a vedere la TV, dove proprio l’ultimo dell’anno annunceranno che Boris El’cin si dimette dalla carica, lasciando il posto al successore Vladimir Putin (un tipo di cui, tra 20 anni, sentire parlare un bel po’). Per non sentir parlare dei bombardamenti in Jugoslavia, del tragico incendio nel traforo del Monte Bianco o della sconfitta di Michael Schumacher che, rompendosi una gamba, non potrà guidare la sua Ferrari F399 (e il Gran Premio lo vince Mika Häkkinen su McLaren), potete sempre vedere una puntata di “Giochi senza frontiere” o magari andare al cinema a vedere un film appena uscito, “Matrix”.
Fatto? (cit. Giovanni Muciaccia). Bene, ora rileggete la lista del mio viaggetto. A distanza di meno di un quarto di secolo, diamo per scontate azioni e possibilità che sarebbe state considerate fantascienza. Non sto facendo un paragone con un tempo che immaginiamo sfocato ed in bianco e nero, ma con l’ultimo anno dello scorso millennio.
Non solo ce la passiamo molto meglio dei nostri antenati in media, ma stiamo anche meglio come “minimo garantito”. Un momento, sto forse affermando che anche il più povero ed emarginato nel mondo occidentale stia meglio di un regnante di qualche secolo fa? Sì. E con me lo afferma(va) anche Mihaly Csikszentmihalyi nell’introduzione del suo celeberrimo “Flow”:
“Sebbene oggi si sia più sani e si viva più a lungo, sebbene anche i meno benestanti ora siano circondati da lussi materiali impensabili persino qualche decina di anni fa (c’erano poche stanze da bagno nel palazzo del Re Sole, le sedie erano rare anche nelle case medievali più ricche e nessun imperatore romano poteva accendere la televisione quando si annoiava)2 e indipendentemente da tutte le stupende conoscenze scientifiche che abbiamo a disposizione, spesso molti di noi finiscono per sentire che la loro vita è stata sprecata e che i loro anni, invece di essere stati pieni di felicità, sono trascorsi nell’ansia e nella noia“.
Sulla percezione (soggettiva) della nostra vita rispetto a quella di chi ci ha preceduto su questo pianeta possiamo anche discutere, ma a è insindacabile che le condizioni di vita (oggettive) siano migliori: di stanze di nobili nei diversi castelli europei, come proprio nell’esempio dello scorso fine settimana, ne ho viste centinaia e (fatta ovviamente eccezione per i palazzi in cui i nobili vivono tutt’ora) le condizioni non erano assolutamente migliori di quelle disponibili oggi in un appartamento medio di una periferia di una grande città. Cerchiamo di ricordarcelo più spesso, quando facciamo il paragone con i prezzi (relativi, aggiustati all’inflazione) degli appartamenti affittati o comprati dai nostri nonni, perché se è evidente quanto il prezzo delle case sia aumentato:
meno facile è apprezzare quanto le nuove tecnologie ci permettano di vivere meglio: quanti dei nostri nonni in quelle case avevano condizionatori e sistemi per riscaldare e deumidificare in maniera efficiente i loro ambienti? Tolta la patina di “i bei tempi con la bella musica, i vestiti vintage e i giri spensierati in motorino” (non tutti vivevano la Dolce Vita, anzi), a quel tempo la maggior parte delle persone lavava a mano non solo i piatti, ma anche i vestiti. Gli elettrodomestici non erano paragonabili a quelli che vediamo ora, la televisione (in bianco e nero e ovviamente non in alta definizione, nè con centinaia di canali che trasmettono anche di notte) era inizialmente una novità che magari possedeva solo una famiglia in tutto il palazzo, altro che serie in streaming da scegliere da un catalogo infinito. Non tutti potevano permettersi un’automobile e i modelli di lusso presenti anche solo 30 anni fa non avevano assolutamente i comfort e la sicurezza delle auto economiche immatricolate negli ultimi anni. Per la sicurezza, i dati riportano un tasso di incidenti mortali per numeri di veicoli molto più basso; per la comodità alla guida e gli accessori… vediamo il confronto tra gli interni di una Porsche 911 (auto sportiva di lusso) del 1995 ed una Citroën C1 (“citycar” economica) del 2023:
Penso la differenza sia evidente anche ad un alieno che non abbia mai visto un’autovettura. Quale delle due pensate sia costata di più, in termini di tempo, al momento dell’ingresso su mercato? In termini di tempo vuol dire: provate ad indovinare, a parità di occupazione lavorativa attuale (che siate operai, impiegati d’ufficio, medici o braccianti agricoli), quanti mesi di risparmi dal vostro stipendio occorrevano per comprare quella Porsche nel 1995 (compresi anche i costi di mantenimento) rispetto a quanti mesi vi occorrono per essere in grado di comprare (e mantenere) quella Citroën appena uscita. Teniamo fuori le considerazioni di appassionati di vintage, qui parliamo di funzionalità, sicurezza e comodità.
Eppure sento tante persone ripetere “si stava meglio prima!”
Qui ci sarebbe da distinguere tra: i giovani (che non hanno vissuto i decenni precedenti) e i meno giovani che, effettivamente, hanno vissuto entrambe le epoche.
Il primo caso si spiega facilmente: tendiamo a vedere l’erba del vicino sempre più verde e ci focalizziamo più spesso sugli aspetti positivi di un’epoca. Se si parla del periodo tra gli anni ’60 e gli anni ’80, ad esempio, molti ragazzi potrebbero pensare a scene da film “Grease”, all’esplosione di diversi generi di musica e diversi stili di moda, arte e tanto altro, mica alla guerra fredda e agli anni di piombo. Forse siamo sempre stati un occidente pieno di musichette mentre fuori c’è la morte.
Similmente, tra una ventina d’anni, un nato oggi potrebbe confrotnare la sua adolescenza con quella rappresentata in uno dei tanti telefilm che raccontano le vite di ragazzini WASP negli anni ’90, nelle loro villette a tre piani con piscina, in cui fare festini tutti i fine settimana. I giovanissimi forse non mi crederanno, ma alla fine degli anni ’90 non vivevo in appartamenti simili a quelli che si vedono in “Dawson’s Creek” o in “Beverly Hills, 90210”, ma ciononostante non mi consideravo affatto povero. Allo stesso modo, dubito che lo stile di vita medio negli anni ’80 fosse quello degli Yuppies.
Il secondo caso, invece, è molto più complesso ed interessante: che “i tempi d’una volta erano meglio” e che “i giovani d’oggi sono allo sbando” lo si dice dai tempi dell’Antica Grecia. Chi mi conosce sa che non amo parlare per sentito dire, quindi ecco a supporto anche uno studio pubblicato proprio questo mese su Nature (“The illusion of moral decline”, Mastroianni e Gilbert, 2023): un grande numero di sondaggi e studi longitudinali ha evidenziato quanto il declino morale come una percezione molto comune, diffusa tra diverse popolazioni e condivisa in modo costante negli ultimi 70 anni. Gli stessi due psicologi ricercatori hanno però constatato che, nonostante la percezione di un progressivo declino delle qualità morali nella società in generale, contemporaneamente si è osservato miglioramento di quelle qualità tra le persone che conoscevano direttamente – il meraviglioso effetto per il quale i peggiori son sempre “gli altri”, mai la nostra stretta cerchia, arrivando al paradosso: chiedete ad un gran numero di persone se son più bravi della media in un’attività diffusa (es: guidare un’automobile in città) e più di metà vi diranno che lo sono.
Non solo valori morali, dicevamo, ma anche il progresso tecnologico (che va oltre alla possibilità di poter pubblicare brevi video trash su Tik Tok). Il tema è stato toccato anche da Barbascura X, con altri spunti interessanti, in questo ed in in questo video. Per alcuni, come per il filosofo Umberto Galimberti, convinto nemico della “tecnica” moderna, gli antichi greci vivevano meglio (non so onestamente quante probabilità avrebbe avuto, a quel tempo, di arrivare ai suoi attuali 81 anni e di poter essere ascoltato da persone di tutta la penisola e persino all’estero). Non potendo però avere nostalgia reale di un periodo non vissuto in prima persona, la vera nostalgia degli anziani è verso il periodo della loro giovinezza, dove ricordano d’esser stati meglio. Uno dei motivi che spiega questa percezione è che, per dirla come Riccardo “Wesa” Vessa in questo video al minuto 16:08, semplicemente “eravamo belli noi”:
Non solo viviamo i differenti periodi storici in differenti periodi della nostra vita (per dirla come un altro filosofo, meno contemporaneo: non ci immergiamo mai due volte nella stessa acqua, un po’ perché il fiume scorre e un po’ perché nel frattempo siamo cambiati noi), ma la nostra visione è distorta dalla falsa memoria.
Lord Byron, nel suo “Marino Faliero, Doge of Venice” (atto II, scena I), scriveva: “Joy’s recollection is no longer joy, While Sorrow’s memory is a sorrow still” (il ricordo dalla gioia non è più gioia, mentre il ricordo del dolore è ancora dolore). Sì, durante la mia adolescenza ero un grandissimo appassionato di aforismi, che spesso condividevo con gli altri, al pari di una fabbrica di Baci Perugina. Mi consenta (cit.) il nobile poeta di dissentire: in diversi casi, col tempo, tendiamo a ricordare momenti di felicità e serenità, mentre minimizziamo quelli spiacevoli. Ovviamente l’elaborazione dell’evento varia da caso a caso, in base al momento in questione (che può anche essere un trauma) e all’inclinazione personali ad essere rancorosi ed ancorati (in positivo o in negativo) al passato. Come varia anche il peso che si dà alle diverse caratteristiche che definiscono un preciso contesto storico-geografico: c’è chi apprezzerà quando “qui era tutta campagna” e chi invece è fortemente entusiasta di ogni possibile gadget tecnologico.
Resta però la questione oggettiva delle possibilità: non solo lavoriamo mediamente meno dei nostri nonni ed in condizioni molto più comfortevoli (non erano tantissimi ad avere l’aria condizionata in ufficio, soprattutto non erano tantissimi quelli che lavoravano in un comodo ufficio), ma riprendo un attimo la destinazione della scampagnata che ho scritto all’inizio, ovverosia la meta, più che il viaggio. Son andato a visitare un castello in un’altra nazione. Non so voi, ma io ho conosciuto diversi anziani che abitavano a meno di un’ora di automobile dal mare… e al mare ci son andati solo una volta, ricordando nei dettagli quell’esperienza! Io personalmente ho visitato una cinquantina di nazioni, non lo reputo un traguardo difficile: viaggiare oggi è un lusso relativamente molto accessibile (bastano al limite un minimo di flessibilità ed adattamento) ed incredibilmente semplice, da un punto di vista organizzativo ed anchje burocratico (salvo ovviamente in nazioni “complicate”). Spesso si tende a dare a queste possibilità un valore molto basso. Ancora ricordo l’espressione nel volto degli anziani di un paesino dell’entroterra quando videro me ed altri ragazzini scout in uniforme: ci chiesero di dove fossimo e, quando rispondemmo di essere del capoluogo, sgranarono gli occhi come se venissimo da un altro continente. Alcuni di loro non avevano nemmeno la possibilità di recarsi “spesso” (diciamo una volta l’anno) in quella città per loro “lontana” (sempre meno di un’ora in auto), perché non potevano lasciare il loro bestiame (e noi che ci lamentiamo delle poche ferie), non c’erano molti mezzi (non tutti i posti in Italia son collegati come il centro di Milano) e pernottare in città poteva rivelarsi una spesa per loro importante. La quasi totalità delle persone nasceva e moriva nello stesso posto, avendo visto poco o niente; se nasceva da padre falegname, probabilmente continuava a svolgere l’attività di famiglia (non c’è nulla di male, ma qui sto parlando di possibilità di scegliere alternative). La maggior parte di chi andava all’estero in cerca di fortuna, doveva accontentarsi di quello che trovava (secondo, appunto, una buona dose di fortuna, non potendo informarsi di ogni dettaglio, come è invece possibile ora, per poter prendere decisioni informate, come ho parlato in Here today to STAY! (…or not?)). Ribadisco: non sto parlando di cent’anni fa, nemmeno di trenta. Cos’è che quindi non ci permette di gioire delle grandi opportunità e dell’immensa libertà a nostra disposizione?
L’assuefazione
Come efficacemente scritto da Russ Harris nell’introduzione di “The happiness trap“, nel mondo occidentale disponiamo dei più alti standard qualitativi di vita mai registrati, comprendendo cure mediche, accesso a maggiore e migliore cibo, migliori condizioni di alloggio e accesso praticamente illimitato ad istruzione, viaggi, intrattenimento, carriere lavorative, eppure sembrano aumentare i casi di depressione, ansia, anoressia nervosa e bulimia, malgestione della rabbia, problemi relazionali e sessuali, solitudine, dipendenze, scarsa autostima e tanto altro. E, mentre tutti i media ci bombardano con trucchi per migliorare la nostra vita, il numero di psicologi, psichiatri, assistenti sociali e “life coach” aumenta ogni anno. Si stima che metà delle persone abbia idealizzato almeno una volta il suicidio: se non tu direttamente, molto probabile che ci abbia pensato il tuo miglior amico o un tuo parente stretto (consiglio la lettura di “A Very Human Ending: How Suicide Haunts Our Species” di Jessie Bering). La spiegazione di questi apparenti paradossi, secondo l’autore, è nel fatto che pretendiamo di esser sempre felici, ma la felicità non è la condizione di normalità. Per dirla in altri termini, non possiamo mantenerci costantemente felici, un po’ per lo stesso principio per il quale alcuni medicinali (ed anche alcune sostanze stupefacenti) ad un certo punto non producono più, a parità di dose, lo stesso effetto: assuefazione. Nel caso specifico, adattamento edonistico: una volta raggiunta una certa condizione, vogliamo sempre ancora di più e meglio. L’uomo primitivo, quello che sopravviveva abbastanza a lungo per procreare e proteggere la sua prole, non era designato (o meglio: selezionato) per accontentarsi. Ci sono tanti casi e tanti meccanismi coinvolti, non ne scriverò in questo già lunghissimo post, ma intanto potete approfondire alcune dinamiche in un mio post precedente: La scienza dello stare bene.
Detto in breve: la società evolve molto velocemente, ma il cervello dell’essere umano evolve più lentamente rispetto all’ambiente che ci siamo costruiti. Se prima chi non era spinto ad accaparrarsi tutto velocemente moriva di stenti (come un animale che non mangia a sufficienza prima di andare in letargo), ora siamo immersi in società opulente, dove il problema è spesso l’opposto (il che spiega il successo di ritiri “dopamine detox” e minimalismo). Considerato che il cervello lavora spesso per differenze relative e non in valori assoluti, non ci basta mai niente, siamo felici solo fino a quando non realizziamo che possiamo avere di più o che il nostro collega percepisce maggiori vantaggi a parità di lavoro. Ci vogliamo convincere di essere molto più evoluti dei nostri nonni, che imparare ad utilizzare uno smartphone all’età di due anni ci renda degli esseri del futuro, ma in realtà non siamo molto diversi da questa scimmia:
Sempre con riferimento alla mia storia di partenza: sono felice di aver guidato un’auto nuova, “full-optional”, comodissima, ma potrebbe prendermi l’invidia nel vedere che i miei vicini Joneses posseggono un’auto di lusso che costa il triplo della mia. E la mia gioia, anche senza comparazione diretta, potrebbe decrescere pensando che usciranno modelli nuovi, che onestamente non avranno molta differenza a parte un restyling lievemente più accattivante.
Non posso ritenermi assolutamente immune a queste dinamiche, ma dopo anni passati a leggere, riflettere e meditare, l’impatto che hanno su di me questi processi mentali è molto, molto ridotto. E partivo comunque già da un buon punto, considerato che già da piccolo ero noto ad amici e parenti per essere un tipo incredibilmente frugale che si accontentava con pochissimo. Mi rendo conto di essere un po’ l’eccezione, che quanto scritto dal dottor Harris nel suo libro è basato sui dati.
Il prezzo da pagare per il nostro benessere
E proprio perché parliamo di dati, questi grafici sono abbastanza chiari:
A questo, vanno aggiunti
Ma non s’era detto che siamo nel periodo migliore?
Potrebbe sembrare un controsenso, ma proprio questi grafici mostrano che siamo nel periodo migliore. Sì, come avevo scritto nell’ultimo post, il pensiero critico comporta un lieve sforzo aggiuntivo per capire davvero le cose, se si vuole scavare (vedi anche Perché siamo così superficiali?).
Chi ha maggiori riserve cognitive o maggiore forza muscolare può decidere di usarne meno, ma non di più di quelle a disposizione; chi ha più risparmi da parte può decidere di vivere frugale, ma difficilmente chi è in stato di povertà può permettersi una vita agiata. Sono concetti banali? Certo. Allora perché non è banale capire che vivere in un ambiente ricco di risorse e servizi accessibili sia molto meglio di vivere in un ambiente privo di beni di prima necessità? Il concetto alla base è lo stesso: occorre ricevere (o darsi) un’educazione in tal senso. Se al marshmellow test sareste stati dei bambini che, oltre a consumare rapidamente in maniera fantozziana le caramelle, avreste anche frignato che non erano abbastanza, probabilmente c’è del lavoro da fare. è ormai risaputo che chi riceve di botto una quantità enorme di denaro la sperpera e si ritrova in alcuni casi persino peggio di prima (con debiti e dipendenze), a differenza di chi invece nasce in una famiglia agiata dove si dà anche molto peso alla cultura e alla gestione di sè e delle proprie risorse (soldi inclusi). Dare la colpa dell’obesità e di tante altre patologie (soprattutto quelle che hanno forte correlazione con lo stile di vita) all’ambiente esterno è solo un modo per deresponsabilizzarsi. Provate più compassione per un miliardario che muore di overdose da sostanze o per un ragazzino che muore di stenti tra le favelas? Nel primo caso, salvo situazioni particolari, c’è stata una scelta a monte, scelta non disponibile per il poveraccio nella periferia del mondo. La chiave, già nota a chi ha letto alcuni miei articoli precedenti, è la consapevolezza. Il punto di partenza è conoscere se stessi e il proprio ambiente; contestualmente, come scritto prima, è importante un’educazione su diversi aspetti, partendo proprio dalle basi dello stile di vita. Negli ultimi anni, sto assistendo ad una crescente popolarità di metodi di presunto guadagno facile (non frequentando molto i social network, mi girano i post di alcuni personaggi improbabili, solitamente riconoscibili da video girati in auto di lusso, musica trap e feste tra grattacieli sempre nelle stesse città), dimostrando un possibile interesse verso i “soldi facili”, ma in pochi sembrano interessati alla gestione seria delle proprie finanze. Siamo “cactus nella foresta pluviale” (mi piace troppo quest’espressione di un diabetologo citatato in Dopamine Nation). Abbiamo assolutamente bisogno di imparare a difenderci dal “troppo” in cui viviamo, altrimenti finiamo come un bambino lasciato da solo in una pasticceria incustodita. Con la differenza che il “feedback” (il mal di pancia) il bambino ce l’ha a breve distanza di tempo, invece per gli adulti il risultato di alcune scelte, spesso reiterate e con peso crescente, è visibile solo quando è troppo tardi: quando ci si accorge di non aver abbastanza denaro per passare una vecchiaia serena, quando il livello di glicemia indica d’esser diventati diabetici, quando iniziano a comparire malattie neurodegenerative a cui, con le proprie scelte ogni giorno, si è dato una mano a svilupparsi. E a proposito di aumento di alcune malattie: siamo davvero sicuri che sia un indicatore di peggioramento? Se prendiamo patologie come obesità e depressione, sicuramente indica un peggioramento dello stato di salute, ma ci sono alcune patologie fortemente correlate con l’età: un aumento dell’incidenza di alcuni tumori, ad esempio, può essere indicativo di quanto una popolazione di una certa area geografica stia invecchiando. A sua volta, questo viene visto da molti come un brutto segno, quando potrebbe non esserlo. Mi spiego meglio: siamo d’accordo che, soprattutto nei paesi sviluppati dove c’è benessere, il tasso di natalità sia inferiore a quello che si registra ad esempio nella repubblica del Niger (dove nascono mediamente 45 bambini ogni 1.000 abitanti; per fare un paragone, in Italia sono tra i 7 e gli 8 ogni 1.000 abitanti). Quello che però non si tiene in considerazione è che invecchiare (soprattutto: invecchiare mediamente bene, sempre ovviamente nei limiti psicofisici fisiologici propri dell’invecchiamento) è un privilegio, una fortuna: secondo il report delle Nazioni Unite e i dati dell’OMS, sono diversi gli stati in cui l’aspettativa di vita media supera gli 80 anni. Questa ad esempio l’aspettativa media di vita alla nascita in Svizzera:
Aver guadagnato oltre 3 anni di vita media in più già solo negli ultimi 20 anni non mi pare un sintomo di peggioramento di condizioni complessive medie di vita. Una bambina svizzera nata nel 2019 ha la possibilità di vivere mediamente 85 anni (quasi 82 se maschio, sempre perché i maschi sono i fortunelli). Certo, uno potrebbe anche dire “dipende da come ci arrivi e come trascorri la vecchiaia” (come ha detto il direttore generale dell’OMS nel 2020: l’aggiunta di più anni alla vita può essere una “benedizione mista” se non è accompagnata dall’aggiunta di più vita agli anni), ma il punto è proprio questo: abbiamo (soprattutto nelle nazioni del primo mondo) più possibilità di scegliere una vita più lunga e più agiata. Non a caso, c’è una crescente attenzione anche alle opportunità per la terza età, ben lontano dallo stereotipo del vecchio buttato a vegetare in un ospizio (anche se, purtroppo, per alcuni è ancora realtà). Come disse già nel 1963 (presidente degli Stati Uniti d’America): “Questo aumento della durata della vita e del numero dei nostri anziani offre a questa nazione maggiori opportunità: l’opportunità di attingere alla loro abilità e sagacia e l’opportunità di fornire il rispetto e il riconoscimento che hanno guadagnato. Non è sufficiente che una grande nazione abbia semplicemente aggiunto nuovi anni alla vita: il nostro obiettivo deve anche essere quello di aggiungere nuova vita a quegli anni”.
Come massimizzare i benefici e ridurre i costi
Abbiamo visto che l’aumento di aspettativa di vita ed un contemporaneo aumento di benessere comportano però un potenziale aumento di malessere. La soluzione è da ricercare nel concentrarsi nel “tributo” che possiamo versare da parte nostra, che personalmente reputo infinitesimo rispetto ai vantaggi ottenuti come contropartita: ci è richiesto un maggiore impegno intellettuale – a chi dice che sia faticoso, consiglio di provare l’esperienza di svolgere lavori pesanti e/o pericolosi, probabilmente un piccone pesa più di una penna (facciamoci caso, la prossima volta che vediamo lavoratori in strada sotto il sole d’agosto e ringraziamoli per la loro opera di manutenzione ed ampliamento infrastrutture, anziché lamentarci del temporaneo disservizio). Occorre sviluppare quanto prima una conoscenza di noi stessi e dell’ambiente in cui viviamo, che è sì molto più complesso, con una crescente quantità di regole e di stimoli (inevitabili al crescere delle opportunità), ma molto più sicuro rispetto al mondo in cui si viveva qualche decennio fa. Non solo abbiamo accesso a servizi dati per scontati (anche un completo nullatenente occidentale ha accesso a pasti decenti, un letto e cure mediche), ma abbiamo la possibilità di accedere facilmente e gratis (o quasi) a strumenti per permetterci di evolverci come persone e di aumentare le nostre conoscenze e competenze (ne ho parlato in uno dei miei primi post: MOOC: the cheap (or even free!) yet powerful and stimulating way to learn).
Per estensione, quando all’inizio ho citato l’ascolto di una puntata di un podcast, è un altro esempio di possibilità di scelta: esistono video divulgativi e podcast che parlano di tutto e a diversi livelli di complessità, trovando perle che in 2 minuti riassumono l’universo a noi conosciuto, oppure intere collezioni di decine di lunghe puntate su un singolo aspetto di un essere vivente o di una roccia. Siamo noi a scegliere se, in 10 minuti della nostra limitata esistenza, vogliamo ascoltare e guardare qualcosa di costruttivo oppure sempre e solo intrattenimento trash, dal tizio che per diversi minuti fa scherzi discutibili a presunti ignari passanti per strada a ‘na manica de regazzini in cerca di popolarità scopiazzando delle “challenge” (che possono finire con la morte di un bambino di 5 anni, com’è successo questa settimana). Oppure non guardare/ascoltare video/audio, ma farci una sana passeggiata nel bosco o far due chiacchiere con un nostro amico.
Spesso ci si dimentica che ciò che abbiamo a nostra disposizione sono strumenti che possiamo scegliere se utilizzare o meno. Oppure, se utilizzarli, farlo con consapevolezza: sono consapevole, per tornare all’esempio in apertura, che la mia applicazione di navigazione stradale mi ha permesso di trovare un’alternativa più rapida alla strada che stavo percorrendo grazie ai dati di posizione presi di continuo da me e dagli altri utenti sulla strada. Potenziale esposizione di (meta)dati personali (aggregati e non) e conseguente rischio per la mia riservatezza? Certo, ma è un prezzo che son disposto a pagare per quella comodità. Sta a me, poi, valutare caso per caso e mitigare i rischi. Sempre come prima: informandosi e studiando. Sempre secondo considerazioni personali: c’è chi ritiene una perdita di tempo leggere le continuamente aggiornate paginate di condizioni d’uso (se non avete mai visto gli acronimi ToS ed EULA, immagino che siate tra quelli che clicca “avanti, avanti” ad ogni installazione ed utilizzo di servizi), chi invece ha necessità o piacere nel leggere, filtrare e cercare contromisure. Ancora una volta: sono possibilità, molto raramente obblighi. Possiamo passare le giornate ad ingozzarci di cibo spazzatura mentre guardiamo passivamente ogni possibile “feed social”, essere al contrario iper-salutisti e minimalisti digitali assoluti oppure tutte le possibili sfumature nel mezzo. Non abbiamo più molte scuse, ora che possiamo conoscere i pro e i contro di oggetti ed azioni, oltre ad avere comprensione di come funzionano le abitudini.
Con tutte le dovute eccezioni del caso (e non son qui a biasimare nessuno), chi si trova in condizioni pessime (povertà, obesità, depressione) è perché non ha avuto modo di essere guidato a pensare che esistono soluzioni, ci si trova ingabbiati sentendosi senza via d’uscita, non si ritengono possibili alternative. Mi si perdoni l’abusata citazione, ma si finisce rintanati nella caverna di platone, dove si percepisce il mondo solo tramite le ombre proiettate sulla parete, vittime di preconcetti (la famosa coppia di parole “credenze limitanti” che tanto piace ai guru di auto-aiuto frammisto a PNL e fuffa varia). Si passano le giornate a “scrollare” foto (studiate, selezionate e modificate) dell’influencer di turno ed autocommiserarsi, anziché pensare a come migliorare la propria condizione.
Siamo un po’ più evoluti di quella povera scimmia invidiosa, possiamo imparare a reagire diversamente ad una situazione che non ci piace – attenzione: non sto dicendo di reprime la rabbia o far finta di nulla, parlo proprio di percepire ed elaborare in maniera differente anche perché, a differenza di quell’esperimento, spesso le nostre gabbie sono solo mentali (non siamo alberi: come scritto prima, abbiamo possibilità di cambiare ambiente). Diventa quindi chiaro perché meditare, oltre a perché consiglio di leggere di più. Occorre inoltre insegnare, soprattutto ai più giovani, un corretto e moderato utilizzo dei nuovi strumenti tecnologici, ma di questo, forse, ne parlerò in futuro. Ora, torno a godermi i vantaggi di vivere nel miglior periodo (o almeno, migliore fino ad ora).