La scienza dello stare bene

Breve introduzione (sulle “scienze molli”)

Ogni volta che approccio un articolo, un paper o un libro relativo a “scienze molli” (scienze umane/sociali), l’ingegnere in me lamenta la carenza di dati quantitativi oggettivi e assoluti, di misure sperimentali ripetibili, di formule matematiche e di tutta quella roba che caratterizza le scienze esatte (matematica e logica) e le scienze naturali (come la biologia, la chimica e la fisica), dove prevale invece il rigore scientifico. Come dice Nassim Taleb nel suo libro “Antifragile: Things That Gain from Disorder“, più ci si allontana dalle scienze dure, più i modelli e i risultati andrebbero presi come speculazioni e ipotesi. E ho studiato abbastanza psicologia e sociologia per essere d’accordo: centinaia di scuole di pensiero diverse e nessuna che predice qualcosa in maniera certa o con un certo grado di approssimazione, non credo ci fideremmo a salire su un ascensore o su un aereo costruiti con simili approcci. Di recente però ho letto un libro del neuroscienziato John Cacioppo, “Loneliness: Human Nature and the Need for Social Connection“, dove l’autore “mette le mani avanti” riportando un estratto dall’articolo del 30 aprile 2002 (“The peculiar institution”) di “Scientific American”: alcuni lettori protestano sugli articoli sociali, chiedendo di attenersi solo alla “scienza vera”, ma gli editori rispondono che il problema risiede nella complessità della materia, infatti raramente ricevono quelle proteste da scienziati che lavorano in fisica e biologia, poiché loro sono i primi a dire che in un certo senso l’universo naturale è più “facile” da comprendere rispetto agli esseri umani.
Avendo questo in mente, ho affrontato il corso “The Science of Well-Being” erogato dall’Università di Yale tramite la piattaforma Coursera.

La felicità può essere imparata!

Mi son iscritto quindi al corso, che ha un altissimo punteggio, consigliato “al 98%”, benché in pochissimi abbiano riportato “benefici tangibili sulla propria carriera” (non è un corso tecnico che insegna ad utilizzare uno strumento di lavoro), ma non per questo “inutile”. Questo spiega l’apparente discrepanza tra i valori “consigliato” e “direttamente utile per il lavoro”.

Uno dei corsi col punteggio più alto in assoluto e tra i più raccomandati, nonostante un basso “impatto diretto sulla carriera”, ma non di solo lavoro vive l’essere umano

Non farò un riassunto del corso, nè una recensione, se ne trovano tante, qui “sul web”. Scriverò invece ciò che mi ha lasciato qualcosa e che è potenzialmente spunto per interessanti riflessioni ed approfondimenti. “La felicità può essere imparata” è decisamente uno di questi. Per approfondimenti sul tema, consiglio il bellissimo libro “Flow” di Mihaly Csikszentmihalyi (se qualcuno riesce a pronunziare correttamente il suo nome per tre volte di seguito, Alessandro de Concini, nel suo “Vince chi impara“, spiega cosa potrebbe accadere).
Il processo è concettualmente semplice: riconoscere gli assunti sbagliati e le cattive aspettative, capire cosa funziona (in generale, ma soprattutto per noi) e reimpostare le proprie aspettative.

Laurie Santos cita il cartone animato popolare negli anni ’80, G.I. Joe, che dice (probabilmente reinterpretando il classico “L’arte della guerra” di Sun Tzu) “conoscere è vincere metà battaglia”, il che, dice l’istruttrice, ci evidenzia una grande fallacia, perché la conoscenza da sola non è abbastanza. Viviamo nell’era della conoscenza e dell’informazione (che spesso “però è sbagliata”, come direbbe il profeta di Quelo), ma essere consapevoli dei bias (come quelli mostrati dal premio Nobel Daniel Kahneman nel suo “Thinking, Fast and Slow“) non ci permette di evitarli se non ci esercitiamo, come anche una conoscenza di famosi illusioni ottiche non ci rende “immuni”, continuiamo a vederle.

Cosa ci fa felici?

Prima di proseguire nel viaggio, si pone l’accento sul “savoring” (traducibile nell’assaporare il momento o in un noto motto che ribadisce spesso anche Alessandro Cattelan nella sua serie “Una semplice domanda“: “godersi il viaggio”). In particolare, nel concentrarsi ed apprezzare il “qui ed ora” (ne ho parlato in qualche post relativo alla mindfulness), nel segnarsi le attività ed aumentare la nostra gratitudine. Quindi si demistifcano i principali argomenti tanto oggetto di agognata felicità:

  • Soldi: lungi dall’affrontare la tematica in maniera morbosa (in molte società, complice una malsana pervasività di alcune religioni, è ancora un tabù, messo alla gogna peggio del sesso), si mostra come molte persone desiderano un lavoro con un alto salario, sove il concetto di alto è percentualmente incrementale in base all’attuale stipendio: se si guadagnano 30.000€ l’anno, se ne desiderano 50.000; ma se si è già a 100.000€ l’anno, se ne sognano 250.000). La bramosia di danaro è così forte che negli USA la popolazione ha complessivamente speso nei biglietti della lotteria (calcolo solo su quelli legali) oltre 70 miliardi di dollari: oltre la spesa per libri, musica, film, teatro, sport e videogiochi messi insieme! La direzione è evidenziata da questionari somministrati a studenti: nel 1967, per il 42% degli studenti era importante un grande patrimonio finanziario, per l’86% era importante una buona filosofia di vita; nel 2005, il 71% degli studenti intervistati rimarcava l’importanza del patrimonio, mentre solo il 52% accennava a voler sviluppare una buona filosofia di vita. Ci aggiungerei: se non è evidente dai testi e dai video della “musica” trap… (su cui esprime qualche considerazione lo psichiatra Valerio Rosso). Diversi studi hanno mostrato una correlazione tra denaro e felicità, ma il plateau si raggiunge abbastanza presto: dopo un po’, quando il denaro permette un minimo di sicurezza, abbastanza da garantire un tetto e del cibo, le gratificazioni iniziano a scemare (qui ci sarebbe da approfondire col discorso dell’adattamento edonistico, concetto che viene menzionato più avanti). Inoltre, i giovani che si mostravano più “materialisti”, intervistati a distanza di 20 anni, si sono mostrati meno felici e con un maggiore livello di disturbi mentali.
Per dare un contesto: lo stipendio americano medio è circa 51.000$ annui
  • Amore: alcuni studi mostrano che a volte essere in una relazione porta ad un livello leggermente superiore di felicità, ma tale “surplus di gioia” tende a scemare abbastanza rapidamente nel tempo, riportandosi ad un livello comparabile a quello dei single (suggerirei l’approfondimento al TEDx talk “What no one ever told you about people who are single” di Bella DePaulo). Da tenere in considerazione se si è infelici e si pensa di “risolvere” cercando l’anima gemella. Ricordo di aver ascoltato un’invervista ad Oriana Fallaci, tanti anni fa, in cui lei diceva che “L’amore è una gomma da masticare, in bocca a chi ha di cosa lagnarsi nella vita” (un po’ come consolarsi nel dire: “Brutta giornata a lavoro, ma quando torno a casa c’è lei/lui che mi aspetta”). Molto più importante cercare di star bene con se stessi, al posto (o anche durante/prima) di cercar rimedio in altre persone.
  • Corpo perfetto: spinte soprattutto dalla costante pressione dei social media (concorsi di bellezza e pubblicità su TV, riviste e cartelloni pubblicitari esistevano anche prima, ma negli ultimi 20 anni il fenomeno è arrivato a livelli che molti specialisti definiscono preoccupanti, soprattutto per gli adolescenti), molte persone si buttano su interventi di chirurgia estetica, ma uno studio ha mostrato peggioramenti sullo stato di salute mentale (senza contare le controindicazioni a livello fisico) di chi si è sottoposto ad interventi:
  • Buoni voti: applicabile in realtà a qualsiasi forma di giudizio, diversi studi riportano che spesso immaginiamo come possa essere una tragedia ricevere un brutto voto e molto felici dopo un bel voto, ma in realtà, dopo aver ricevuto il voto effettivo (bello o brutto), le nostre reazioni emotive sono molto ridimensionate, nel bene e nel male, rispetto alle nostre preoccupazioni o alte aspettative.

Perché le nostre aspettative sono così brutte

Atteso che la felicità può essere (parzialmente) sotto il nostro controllo (alcuni stimano che dipenda per il 50% dalla genetica, per il 10% da cosa ci accade e per il restante 40% da come ce la raccontiamo e come reagiamo, ma come detto all’inizio: le analisi quantitative lasciano il tempo che trovano), il corso accenna a possibili cause di infelicità dovute alle aspettative:

  • Miswanting” (termine coniato da Wilson e Gilbert): consiste nell’essere in errore circa cosa vogliamo davvero, cosa e quanto ci piacerà in futuro. E qui non posso non citare l’antica saggezza cinese: “che tu ottenga ciò che desideri” era da molti considerata una maledizione, non un augurio! Come rimedio, in “Designing Your Life” di Bill Burnett e Dave Evans (che ho riassunto qui), si propone di parlare con qualcuno che ad esempio già svolge un lavoro che vorremmo fare, in modo da avere un’idea più precisa dei pro e contro che si attendono, perché potremmo scoprire che non è ciò che immaginiamo.
  • La mente non ragiona in termini assoluti: esattamente come la luna ci può apparire più piccola in città e più grande in spiaggia (dove mancano i riferimenti) e come facciamo fatica a farci sembrare uguali questi cerchi arancioni:

così la mente ragiona quando pensiamo ad altri ambiti. Medvec nel 1995 pose l’accento sull’importanza dei punti di riferimento nella felicità, come del resto è evidente nelle cerimonie di premiazione olimpiche, col vincitore della medaglia d’argento spesso “meno esultante” rispetto al terzo arrivato. Lo stesso si applica ai voti ricevuti in una sessione di laurea (compreso il 109/110 più amareggiato del 108/110), al salario e a tanto altro. L’insoddisfazione dovuta a comparazione e pressione sociale diventa un “driver” evidente poi nell’acquisto di vestiario, automobili ed anche vacanze, per quel fenomeno noto come Keeping up with the Joneses, tanto che Kuhn et al. nel 2011 notarono che tanto più c’era un vicino di casa con un’auto sportiva, tanto più era probabile che, a seguito di una vincita alla lotteria, il fortunato avrebbe comprato un’auto nuova. Il paragone con modelle e modelli fu studiato da Kenrick et al. nel 1993 (fate un favore a voi stessi: non toccate riviste di moda o gossip, nemmeno se non ci sono altre riviste mentre attendete da parrucchiere o dentista, piuttosto fissate il muro) e nel 1999 Schor stimò che (per la gioia degli inserzionisti e dei pubblicitari profumatamente pagati per generare futili desideri) per ogni ora di TV buttata in una settimana, c’è un incremento medio di 4$/h: oltre alla perdita di tempo e al danno mentale nel vedere TV spazzatura (scusate, “intrattenimento” o anche “infotainment”, infognainment per la mente), ogni ora ci porta inconsciamente a spendere qualche euro in più la prossima volta che facciamo compere, causa riprogrammazione mentale da martellamento pubblicitario ed esposizione a discutibili modelli e stili di vita attraverso lo schermo. Per chi non guarda TV: tra i tanti che allarmano sul fenomeno, Vogel et al. nel 2014 hanno evidenziato come ci sia correlazione tra un maggior uso di social network (come Facebook) ed una minore autostima. Per chi volesse approfondire l’argomento della comparazione coi vicini (e possibili rimedi), suggerisco la lettura di “Courage to be Disliked“, libro in cui Fumitake Koga e Ichiro Kishimi divulgano in maniera leggera ed accessibile (anche se a volte un po’ troppo semplificata) i principali aspetti della psicologia psicodinamica del noto psichiatra e psicoterapeuta austriaco Alfred Adler.

  • Percezione e adattamento edonistico: studi sul salario condotti da Di Tella et al. nel 2010 hanno mostrato come gli obiettivi raggiunti (es.: bonus o incremento salariale) diventino presto la “nuova normalità”. Lo stesso accade quando si compra un’auto nuova: per quanto sia bella, l’effetto “figosità” tende a svanire piuttosto presto nel tempo, idem per nuovi gadget dopo l'”unboxing” (scartare la confezione, per i nostalgici dei vecchi modi di dire ormai desueti). Nel libro “Stumbling on happiness“, Gilbert mostra inoltre come l’effetto meraviglia tende a diminuire dopo un certo numero di ripetizioni (si può notare nell’espressione di un neonato quando vede per la prima volta qualcosa e quando la stessa situazione diventa invece familiare).
  • Bias dell’impatto: abbiamo l’innata tendenza di sovrastiamre l’impatto emozionale di un evento futuro, sia in termini di intensità (Levine et al. 2021) sia di durata (Dunn et al. 2003), accentuata in misura decisamente maggiore quando ci si prefigura un evento sgradevole – il che potrebbe contribuire a spiegare il terrore di alcune persone nell’immaginare di parlare in pubblico o di trovarsi in situazioni insolite/sgradevoli, mentre, a situazione avvenuta, ci si rende conto che non era qualcosa di così terribile. Spesso sottovalutiamo il nostro “sistema immunitario psicologico”.

Come superare i bias

Oltre a ricordare l’importanza del praticare esercizio fisico e del dormire bene, ci sono semplici consigli per cercare di minimizzare l’effetto dei bias visti prima:

  • Investire in esperienze: come detto precedentemente, l’effetto “wow” dovuto all’acquisto di qualcosa tende a svanire rapidamente, pertanto conviene scegliere spender tempo e soldi in attività, in esperienze (secondo propria disponibilità temporale ed economica). Inoltre, nel caso di acquisto materiale, il cattivo investimento (ad esempio: un’auto che non ci si poteva permettere e per la quale ci si è anche indebitati) resta lì a davanti a noi come monito, a ricordarci della cattiva spesa. Le esperienze, inoltre, sono anche più divertenti ed interessanti da raccontare, rispetto agli acquisti di beni materiali (Van Boven et al. 2010)
  • Constrastare l’adattamento edonistico: per un attimo, pensiamo alla nostra vita, per rivedere ed apprezzare le nostre esperienze, anche quelle che ci sembrano meno allegre. Combattiamo tutto ciò che non ci fa bene, come (Jose et al. 2012): pensare troppo al futuro, pensare che ciò che viviamo ora finirà, che non lo rivivremo più e che nulla è per sempre, dirci che non siamo abbastanza e che non ci meritiamo quello che abbiamo. Chiediamoci (Kurtz 2008) se scattare foto aumenta il nostro goderci l’attimo o se lo facciamo solo per paura di non rivederlo più (o, peggio, per condividerlo sui social network in tempo reale). Cerchiamo di ricordarci, ma senza angoscia, che il nostro tempo è limitato (per farne buon uso). Ricordiamoci di esprimere gratitudine (come per il perdono: non il valore non è tanto nel comunicarlo agli altri, quanto pensarlo). Valuta la “visita di gratitudine” (Seligman et al. 2005): scrivi una lettera a qualcuno che ci ha aiutato o è stato particolarmente gentile con noi e che non è stato ringraziato adeguatamente, quindi consegna la lettera di persona (niente sistemi di messaggistica istantanea o e-mail!).
  • Azzera i tuoi punti di riferimento: ri-esperimenta (pensa ai punti di riferimento che avevi prima), osserva per bene, non confrontarti agli altri (e, per favore, smettila di scorrere per ora i social network), interrompi i tuoi consumi/abusi, aumenta la varietà di ciò che vivi.

Desiderare meglio

Ricorda i punti di forza del carattere, che sono ubiqui attraverso le culture, soddisfacenti (ci “riempiono”), moralmente valutabili, non atti a diminuire gli altri, opposti a “tratti negativi”, in qualche modo misurabili. L’elenco (e spiegazione) dei 24 caratteri è disponibile qui. Seligman sugerisce di utilizzare almeno uno di questi 24 tratti in un modo nuovo e diverso ogni giorno in una settimana (nel 2005, un suo studio mostrò meno sintomi depressivi nei soggetti che lo avevano sperimentato). Utilizzare uno o più di questi tratti nel lavoro può anche trasformare il tuo impiego in una vocazione.

Ricorda che spesso il “dolce far niente” (la classica immagine di tre mesi di vacanza a sorseggiare mojito sotto una palma) non porta assolutamente a felicità. Cerca piuttosto lo stato di Flow (lo stesso descritto dal libro suggerito prima). Il flow ha queste caratteristiche:
– obiettivi sfidanti, ma raggiungibili;
– forte concentrazione focalizzata;
– l’attività è gratificante in sè, a prescindere dall’obiettivo finale;
– sensazione di serenità;
– perdita del senso di sè (si è totalmente assorbiti);
– perdita del senso del tempo che scorre;
– attenuazione di consapevolezza di bisogni fisiologici (come sonno o fame).
I migliori momenti della nostra vita non sono quelli in cui siamo pigramente rilassati, ma quando siamo attivamente nel flow!

Cerchiamo una motivazione intrinseca (es.: il piacere di imparare e di fare qualcosa di utile e/o che piace), non esterna (guadagno ricompense e fuga dal dolore). Sviluppiamo un “mindset di crescita”, allontanandoci da quello “fisso”: focus sull’imparare, non sul risultato, notiamo che una buona riuscita dipende dal buon lavoro, che lo sforzo (adeguato) è positivo e che possiamo imparare dagli errori.

Gentilezza e connessioni sociali

Semplici atti di gentilezza ci portano felicità (a volte anche solo pensarci, senza farlo, può portare ad un lieve incremento di felicità, ma farli è decisamente meglio, sia per noi sia per gli altri). Dunn et al. 2008 dimostrarono che spendere soldi per qualcuno ci rende più felici, a prescindere dall’importo (sì, offrire fa bene, quindi accetto donazioni: lo faccio per voi, per darvi opportunità di essere felici :D).
Le connessioni sono così importanti che alcune persone sono più preoccupate di perdere la propria “rete” piuttosto che di cercare il giusto posto o lavoro. Un interessante studio di Epley e Schroeder nel 2014 ha mostrato che approcciare connessioni sociali nel trasporto pubblico, rispetto a farsi i fatti propri, ha incrementato la positività, a prescindere che si sia stati istruiti ed “obbligati” (spinti) a farlo o no.
Boothby et al. 2014 dimostrarono che mangiar cioccolata in un’esperienza condivisa anche senza parlare o conoscere gli altri che stavano mangiando può incrementare il sapore percepito [anche se questo è in contrasto con uno studio citato da Cacioppo in “Loneliness” che riporta che la gente trova più buono il cibo quando è da sola, in un tentativo di spiegare il maggior tasso di obesità delle persone sole, ma… ho già detto all’inizio che queste sono “scienze molli”, quindi ognuno può tirare acqua al suo mulino, con un adeguato cherry picking dei diversi paper sociologici e psicologici che affermano tutto e il contrario di tutto].

Valore al tempo

Molta gente si preoccupa di accumulare ricchezze, ma Whillans et al. 2016 hanno affermato che dare priorità al tempo anziché al denaro è stato associato a maggiore felicità. Eppure (Hershfield et al. 2016) molta più gente dà più valore ai soldi rispetto al tempo (in quello studio, era 69% contro 31%): anche in tal caso, quelli che davano più importanza al tempo hanno realizzato punteggi più alti nella scala di felicità. Anziché affannarvi in lavoretti secondari o fare straordinari non richiesti nella speranza di bonus e promozioni, valutate invece l’opportunità di scegliere lavori che lascino più tempo libero. E ricordate che il tempo è denaro, ma esattamente nel senso opposto a quello comunemente associato, quindi il denaro è tempo, come ne avevo già parlato.

Una mente “errante” è una mente infelice: meditate!

La nostra mente vaga per fatti propri per quasi la metà del tempo (Killingsworth e Gilbert, 2010). Il cervello torna al suo “stato di default” (non a caso si parla di Default Mode Network) anche dopo una frazione di secondo dopo aver eseguito operazioni consapevoli, quindi in realtà la nostra mente pensa a qualcosa anche quando crediamo di non essere impegnati, come ad esempio quando svolgiamo lavori alienanti o (ancora una volta) guardiamo passivamente qualcosa come i social network o TV spazzatura. Cober, Brewer et al. 2011 hanno evidenziato (con analisi strumentali come fMRI) che, durante e dopo la meditazione, meditatori esperti (10.000+ ore) hanno più controllo e meno attività DMN:

Meditazioni: Choiceless Awareness (verde), Loving-Kindness (rosso), and Concentration (blu).
Spiegato brevemente: il segnale relativo a BOLD misura indirettamente l’attività cerebrale, basato sull’assunto che i neuroni non hanno riserve di zuccheri e ossigeno, quindi quando si osserva un incremento di ossigeno nel sangue diretto in quelle zone, si deduce che ci sia una maggiore attività. La risposta magnetica del sangue ossigenato e non ossigenato è diversa, pertanto è possibile misurare i livelli di maggiore attività cerebrale nelle aree specifiche.

Non solo DMN: la meditazione migliora le funzioni cerebrali in generale, al punto che è stato osservato (Hölzel et al. 2011) un aumento della densità della materia grigia cerebrale.
Mrazek et al. 2013 hanno mostrato, sempre nei soggetti che praticano meditazione, miglioramenti nelle prestazioni relative a compiti per casa e test, oltre a miglioramenti sociali.

Esercizio fisico e sonno

Qui ci sarebbe tanto da scrivere, visto che, per quanto scontate, queste due attività vengono spesso ridotte a ritagli di tempo e non se ne dà il giusto peso. Tra i tantissimi studi:
Babyak et al. 2000 hanno equiparato gli effetti positivi di 30min di esercizio fisico 3 volte alla settimana a quelli di farmaci SSRI (psicofarmaci antidepressivi), ma senza i relativi effetti collaterali. Hillman et al. 2008 hanno evidenziato quanto l’esercizio fisico preservi il cervello in buono stato. Dinges et a. 1997 hanno studiato la deprivazione di sonno, evidenziando come dormire solo 5 ore per notte ha effetti devastanti anche sull’umore, ma consiglio caldamente di leggere il mio articolo sul grande libro “Why we sleep” di Walker.

Il corso tratta anche altre tematiche, come il supporto situazionale, riassumibile in: allontanare ciò che fa male o distrae (caramelle, smartphone) e facilitare/avvicinare ciò che ci fa bene (acqua, cibo salutare, promemoria che al mattino ci ricordano di meditare e svolgere attività fisica ed esprimere gratitudine). Ci sono anche accenni a strategie per raggiungere i propri obiettivi, tra cui il porsi un obiettivo specifico e misurabile (per gli amanti degli acronimi, gli arcinoti obiettivi SMART) , visualizzare e realizzarlo con la tecnica WOOP (Wish, Outcome, Obstacle, Plan). Sempre nell’ottica del voler essere quantitativi, esistono anche delle scale che forniscono una “misura” della propria felicità dopo aver risposto ad una ventina di quesiti (PERMA e Authentic Happiness Inventory), anche se siamo ben lungi dal poter avvalerci di una seria psicometria che possa fornire risultati scientifici.

A differenza di corsi prettamente tecnici, questo (come un po’ anche dei buoni libri di filosofia) è uno strumento utile per conoscere cosa ci può far bene o male (e come) e per riflettere in merito, approfondendo e ricordandosi che “una vita non esaminata non è degna di essere vissuta”, quindi è tempo di sperimentare adattando questi concetti sulla nostra persona. “Nosce te ipsum” (“conosci te stesso”) e, come diceva Friedrich Nietzsche: “Werde, der du bist” (“diventa chi sei”). Possibilmente, la versione migliore di noi stessi 🙂

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