La scalata verso i piani alti

Premessa: quello che segue non è un puro esperimento di pensiero, un’ipotesi, nè tantomeno una lamentela della volpe operaia che non arriva all’uva che cresce ai vertici, ma qualcosa su cui ho riflettuto dopo diversi anni da dirigente e program manager (probabilmente in futuro condividerò altri pensieri derivanti da quelle esperienze). Per avere un’idea, questa è stata la mia posizione all’interno dell’organizzazione in cui mi trovavo poco dopo aver compiuto 30 anni d’età (essendo al servizio della nazione, il mio capo era il capo dello Stato, che nell’immagine è colorato in rosso):

Mia posizione gerarchica all’interno dello Stato, poco dopo aver compiuto 30 anni

Non preoccupatevi: è una piramide, ma non servono Red Ronnie e Corrado Malanga per interpretarla. Vista in un altro modo: le mie autorizzazioni per andare in missione erano firmate direttamente dal numero due della Difesa. In termini relativi (considerando i singoli enti), spesso mi son trovato al secondo o terzo livello partendo dal vertice, in molti casi collaborando direttamente col comandante, soprattutto in contesti di emergenza. Scrivo questo non per ostentare qualcosa, ma per fornire il contesto: sin dai miei 25 anni, al termine di una accademia militare (parallelamente agli studi di ingegneria) ho avuto modo di provare i pro e i contro di essere in una posizione elevata, gestendo decine di collaboratori di tutte le età (tra cui qualcuno con figli più grandi di me), oltre ad esser responsabile di mezzi ed informazioni sensibili per la nazione. Come dicevamo spesso nell’ambiente: “Oneri e onori”.
Ad un giovane, consiglio una lettura molto critica che non smorzi il suo entusiasmo nè smonti i suoi sogni, perché a quell’età è normale avere fame di esperienze, di esplorare e fare, di cercare di cambiare le situazioni a tutti i livelli (“challenge the status quo“) e spesso purtroppo è effettivamente possibile modificare qualcosa solo salendo nella gerarchia. Fu in quest’ottica, che un vecchio comandante (anche lui ingegnere) mi disse: “Ammiro la tua umiltà e la totale assenza di bramosia di potere, ma devi comunque ambire ai gradi apicali perché, ai tavoli decisionali, se non hai raggiunto un certo grado militare, nemmeno ti ascoltano”. Proprio partendo da questa affermazione, iniziamo un’analisi della gerarchia con i vari cosa, perché e come.

I livelli e la posizione

Prima di addentrarci nelle varie considerazioni, c’è una distinzione (non per tutti ovvia) da chiarire: non c’è stretta correlazione tra il livello e la posizione all’interno dell’organigramma dell’organizzazione. Parlando del mondo militare, ad esempio, può esserci un maresciallo (quindi un sottufficiale) che svolge l’incarico di comandante di stazione in un paese, con un certo numero di militari alle sue dipendenze, mentre un tenente (quindi un ufficiale) potrebbe essere un “addetto” in un ufficio senza personale alle sue dipendenze. Vale lo stesso per enti pubblici (un amministrativo potrebbe gestire una segreteria, magari anche di diretta collaborazione di un ministro, mentre un alto funzionario potrebbe lavorare da solo come consulente su una particolare tematica, in una posizione periferica) e per aziende private (esistono dei “principal” molto senior, pagati da dirigenti, ma che non dirigono altri se non loro stessi). Ad esempio, ho presentato la mia richiesta di congedo quando mi trovavo, partendo dal basso, al grado 21 di 28 (dove 1 è il soldato semplice e 28 il comandante della forza armata), in promozione (in gergo tecnico: stavo andando “in avanzamento”) al livello 22; avevo un buon numero di collaboratori specializzati, ma nel mio stesso ente c’era anche chi aveva un paio di gradi più di me, ma senza responsabilità nè collaboratori. In base ai motivi che vedremo in seguito, può esserci qualcuno che sogna una posizione apicale senza gestire collaboratori, qualcuno che, a prescindere dal grado, vorrebbe essere a capo di una squadra numerosa e chi vorrebbe sia buon livello, sia posizione in alto.

Il livello/grado come proxy

Il grado (o il livello aziendale) spesso funge erroneamente da proxy, valutato più della compentenza effettiva. Per esperienza, non c’è sempre una grande correlazione tra grado e capacità di valutazione di una determinata situazione. Per capire la modalità di pensiero frequente in alcune organizzazioni, riporto un aneddoto significativo (purtroppo non un caso isolato): ero responsabile di sistemi complessi (d’arma, informatici e di telecomunicazioni), a capo di una quarantina di militari tecnici specializzati; durante una missione, il comandante diede ordine di effettuare una certa operazione, impossibile per gli apparati a disposizione. Gli risposi che, per quanto non volessi disobbedire ad un superiore, purtroppo dovevo obbedire anche alle leggi della fisica, che non potevano essere cambiate; subito mi urlò infuriato: “Dal comando centrale, X (personaggio con grado elevato) mi ha detto che si può fare; pensi forse di saperne più di lui?”. Gli risposi educatamente che sì, ovviamente ne sapevo di più nello specifico (essendomi laureato in ingegneria delle telecomunicazioni, conoscendo bene i sistemi ed avendo consultato i miei fidatissimi uomini esperti di quegli apparati). La mia onesta risposta causò l’ira del comandante, perché io ero “solo un capitano”; probabilmente, nella sua testa, la competenza tecnica è funzione del grado. Immagino che questi dirigenti, in caso di malore, non si rivolgano ad un semplice medico, ma pretendano pareri dal capo di un dipartimento della sanità, poco importa che magari sia un economista o un avvocato e non un medico, l’importante è che sia ai vertici dell’organizzazione. Riporto un simpatico modo di dire diffuso in alcuni ambienti militari, emblematico di questo modo di ragionare:
– il sottotenente non sa nulla e non fa nulla (perché ancora in formazione);
– il tenente non sa nulla e fa tutto (perché non ha esperienza pratica, ma gli delegano tanto lavoro da svolgere);
– il capitano sa tutto e fa tutto (perché ha ormai acquisito esperienza e la mette in pratica);
– il maggiore sa tutto e non fa nulla (perché ha tanta esperienza, ma spesso delega al secondo e al terzo).
Il fatto che non vengano menzionati i gradi superiori probabilmente non è un caso.

Più in generale, penso sarà capitato quasi a tutti di trovarsi nella condizione di sentire urlare, in contesti pubblici o privati, frasi come “Voglio parlare col direttore!”: molte volte, non è soltanto la pretesa di parlare con un responsabile, ma dimostrazione dell’assurda convizione che, più si salga in alto nella gerarchia, più aumentino le compentenze. Benché in alcuni casi possa effettivamente verificarsi una correlazione tra grado rivestito e competenza (ad esempio: se l’avanzamento di carriera è dovuto alla “seniority”, ovverosia all’esperienza maturata in un determinato settore), nella maggior parte dei casi le carriere sono separate: chi intraprende una carriera da dirigente in un’azienda tecnica potrebbe non saperne assolutamente nulla degli aspetti tecnici di un prodotto che invece è conosciuto in ogni minimo dettagli dall'”ultimo operaio” che ci lavora. Come ho sempre detto sia “verso l’alto” (ai miei superiori), sia “verso il basso” (ai miei preziosissimi collaboratori), abbiamo potuto raggiungere importanti risultati solo grazie alla capacità di questi ultimi: la delega non era solo una questione di risparmio di tempo, ma soprattutto di profondità di competenze. Certo, avevo sempre la visione di insieme dei sistemi, ma non potevo pensare di arrivare alla conoscenza ed esperienza di chi, su alcuni singoli apparati, ci lavorava da decenni. Gli unici che davvero pensavano di saperne più dei loro validi collaboratori erano degli idioti presuntuosi fermatisi al principio della curva di Dunning-Kruger (per dire: ho davvero conosciuto gentaglia che, dopo pochi mesi di un blando corso tecnico per generalisti, pensava di saperne quanto me che su alcuni argomenti ci ho speso anni di teoria e anni di pratica; l’equivalente di guardare un paio di tutorial su come si suona una scala maggiore e credersi i nuovi Mozart… un po’, onestamente, li invidio).

Perché scalare?

Alla base del desiderio di essere promossi a lavoro non c’è esclusivamente la questione denaro; spesso ci sono altri fattori, solitamente combinati tra loro, tra cui:

  • Il principio “comandare è meglio che f*ttere”: per disturbo di personalità, questioni non risolte di episodi di bullismo o repressione, delirio di onnipotenza, bramosia di rivalsa nei confronti di qualcuno… qualunque sia il motivo, c’è chi avverte forte questo desiderio di sentirsi dio nell’essere rispettati/venerati e nel giocare a dare ordini ad altri essere umani, fosse anche solo l’imporre il “devi restare qui anche senza motivo, semplicemente perché te lo dico io”.
  • Il richiamo verso i piani alti, chiamati così perché fisicamente in molte aziende c’era l’uso di sistemare i manager in alto, dove si può ammirare una visuale da un punto di osservazione più elevato (da un mio punto di vista, più scomodo, visto che c’è anche da prendere l’ascensore, sperando funzioni e non sia perennemente occupato, per non parlare degli spiacevoli inconvenienti in caso di terremoto o incendio: non solo per il trasporto in ospedale o per l’arrivo dei soccorsi, ma anche per il tempo necessario per evacuare la palazzina). Può al limite avere un senso nelle imbarcazioni: solitamente, i passeggeri paganti alloggiano nelle cabine più in alto dove, oltre a godere di una vista migliore (migliore certamente di chi si trova con la sola vista della paratia, sotto il livello di galleggiamento), sono anche più al sicuro (disponendo di più tempo di sopravvivenza in caso di allagamento) e devono fare meno fatica per scendere a terra (a differenza di chi si trova in basso, costretto a salire diversi piani). Metaforicamente, quindi, si sale per stare più lontani dal pericolo di allagamento, come sa bene il topo nella nave che sale per evitare di annegare. Nelle aziende, però, è generalmente valido il contrario: sono i manager i primi a saltare in caso di problemi (di sicurezza, di frodi, di un dipartimento che si dimostra una spesa più che un beneficio per l’azienda) o di cambio al comando.
  • Il morboso piacere di vedere tutto e curiosare nelle dinamiche anche personali di tutti: soprattutto in organizzazioni che non prestano molta attenzione alla riservatezza (e, aggiungerei, ai diritti umani), solitamente più si sale in alto, più si ha possibilità di vedere tutto, avere le mani in pasta, cavalcare ogni possibile notizia interna/esterna e… farsi riportare ogni tipo di dettaglio dai servili dipendenti/spia;
  • La naturale predispozione di alcuni al più strisciante servilismo (c’è chi ha proprio l’indole del lacché, del “pet” che segue scodinzolando il proprio superiore e lo accompagna prendendo parte ai vari “codazzi” che circondano il capo ovunque vada); mi raccomando qui a non confondere il servilismo con il nobile concetto di “servire”. Vale la pena notare che tali individui, essendo spesso persone vuote (prive di contenuto, di competenza e di scopo) godono di luce riflessa (non potendo esser loro un’autorità, possono pur sempre ripiegare sul “io sono il segretario di…”, “io lavoro come aiutante di…”).
  • Il bisogno di accrescere il proprio ego e la propria (a volte malsana) autostima, per poter atteggiarsi con: “io sono manager di questo dipartimento”. Fa solitamente il paio con l’impellente necessità di sfoggiare eventuali titoli accademici che precedono il nome nella targhettina sul tavolo e l’ostentare certificazioni che seguono il nome dopo la virgola. Le persone mosse da questo bisogno si riconoscono solitamente per il loro pavoneggiarsi parlando con amici, familiari, sconosciuti (e su Linkedin); vale la pena notare che molti si identificano esclusivamente col proprio lavoro, soprattutto se non coltivano altre passioni o interazioni.
  • Infine, il grande classico che sembra essere particolarmente in voga nelle nuove generazioni: voler lasciare un impatto.

L’ultimo punto, lasciare un impatto, merita una digressione a parte. Bene il voler cambiare processi e prodotti, ma spesso si è motivati solo perché si è interiorizzata la cultura tossica della proattività a tutti i costi, che causa iatrogenia (nell’accezione specifica di “overintervention”, di intervenire quando non serve, come nel contesto di “Medical Nemesis” di Ivan Illich, 1976): bisogna “fare qualcosa” per forza, tanto più quanto più sei in alto nella scala, per sentire un senso di partecipazione (il “bisogno di contributo” che diceva Maslow, ma qui applicato male), di “efficacia”, di “guarda cos’ho realizzato” (consiglierei caldamente a chi avverte queste urgenze di dedicarsi ad attività manuali, che permettono di esprimersi eventualmente anche artisticamente nel realizzare qualcosa, ma senza far danni agli altri). Talvolta, questo bisogno di modificare una situazione o consegnare qualcosa ai posteri è solo sterile ego nel voler lasciare il proprio nome scritto, nella speranza ci sopravviva (se non alla morte fisica, almeno a quella lavorativa, che sia per motivi di pensione, licenziamento o trasferimento in altro dipartimento). Ricordo taluni personaggi che orgogliosamente impostavano tutto in “sola lettura” e sotto password, per poter quindi lasciare il loro nome su un qualcosa che spesso non solo era risibile per quantità e qualità di lavoro svolto, ma addirittura era solo un rebranding. Spesso ho trovato qualcuno che scriveva il proprio nome su qualcosa già esistente (come rinominare un software aziendale o addirittura un progetto open source appena scaricato), così da poter diventare “famosi” soprattutto se gli altri (partendo dai propri superiori incompetenti, vedasi il discorso del grado citato all’inizio) non capiscono che è una plateale presa per il sedere, che spesso anzi contravviene alle regole di distribuzione del software, alla proprietà intellettuale, ma soprattutto al fatto che non si può rendere un’intera organizzazione scacco di imbecilli che, non sapendo come farsi notare, si limitano a configurare qualcosa (spesso peggiorandola) e lasciando tutto sotto una password che non condividono con nessuno nemmeno al momento in cui se ne vanno. Non voglio dire sia brutto cercare di “lasciare il mondo [anche lavorativo] un po’ migliore di come l’abbiamo trovato” (come diceva il generale britannico Lord Robert Baden-Powell, fondatore del movimento scout), ma quando l’obiettivo è quello di massimizzare le probabilità di essere notati e far carriera, si tende a imbrogliare, perché così è più facile. Del resto, è noto anche che in molti ambienti viene premiato chi realizza qualcosa di nuovo (anche se inutile, purché scintillante), anziché chi si rimbocca le maniche per lunghi giorni nel compiere il lavoro sporco, frustrante (e a volte rischioso) di manutenzione. In una società sempre meno orientata al contenuto di valore, celebriamo il designer che ridisegna la confezione, mentre chi faticosamente si occupa di manutenzione dei macchinari che creano il prodotto è visto come il brutto e sporco operaio che “fa le sue cose”, che è meglio tenere lontano dagli eventi sociali e dalle telecamere, perché ha passato la sua vita a lavorare anziché ad imparare le paroline giuste per gli small talk e a vestirsi elegantemente agli eventi di premiazioni per dirigenti, che servono solo a farsi i complimenti a vicenda. Si celebra chi ha appeso un nuovo quadro alla parete, mentre sotto ci sono decine di persone che silenziosamente faticano per far sì che le condutture di acqua e gas tra le fondamenta della palazzina non saltino.

Un mondo di superficialità sfruttabile

Siamo attratti dalle lucine come tante falene e, per mancanza di tempo (e purtroppo spesso anche di competenza e di voglia), chi valuta l’operato non si sofferma ad analizzare i dettagli che davvero contano ad un livello più profondo. Purtroppo, come già scritto, siamo portati ad essere superficiali, di conseguenza è più facile essere ingannati da chi ci porta scatole vuote placcate con oro in superficie spacciandole per lingotti pieni. E c’è chi sfrutta (“exploita”, come direbbe un informatico) queste vulnerabilità di sistema. Ho imparato subito gli effetti dell’imbrogliare (a mio discapito): a 15 anni, divisi in coppie di studenti, ci fu assegnato il compito a scuola, durante le ore di laboratorio di informatica, di creare una tabella con i valori degli angoli noti e i rispettivi valori di funzioni trigonometriche. L’output era stampare a video quella tabella, mentre l’outcome era ovviamente imparare a manipolare semplici strutture dati ed utilizzare librerie con funzioni matematiche. Allo scadere del tempo, io e l’altro studente in coppia con me avevamo svolto tutto il compito, ma purtroppo la stampa a video della tabella non era perfetta a causa del diverso numero di cifre relativo ai vari numeri (ad esempio: “45°” sono 3 caratteri a video, mentre “180°” sono 4 caratteri, quindi i valori successivi da stampare necessitavano di un numero diverso di caratteri di spaziatura per poter apparire ordinati); il problema aveva ovviamente più di una soluzione, ma richiedeva tempo, tempo che abbiamo utilizzato per scrivere “il contenuto”, cioè le righe di codice che facevano passare “gli elementi del vettore” (trad.: i valori dei gradi) nei cicli delle funzioni. Pochi minuti prima della campanella, l’assistente di laboratorio (un personaggio totalmente inadatto ad un contesto scolastico, come tanti) disse: “mandate in esecuzione il programma, che passo tra i banchi a vedere”. Non aveva nè tempo nè voglia di dare nemmeno un’occhiata rapidissima al codice. Risultato? Io e lo studente accanto a me ricevemmo un voto molto buono, ma non altissimo, a causa dell’imperfezione nella visualizzazione della tabella (ma i valori richiesti c’erano tutti e corretti). Qualcuno che aveva svolto il compito per metà si guadagnò la sufficienza; chi non si era reso conto dell’orario (e aveva ritoccato qualcosina nel codice pochi minuti prima), aveva finito per “rompere” qualcosa e, forse anche solo per una parentesi non chiusa, il programma “non compilava” (trad.: non andava in esecuzione e quindi non stampava nulla sullo schermo, restando sulla schermata di errore), causando una grave insufficienza come se non avesse fatto nulla. Ma il colpo da maestro, che a distanza di tanti anni ancora ricordo, fu ad opera di due ragazzi che, in quel contesto, risultarono oggettivamente i più “smart” (o imbroglioni) della classe: nel tempo dell’esercitazione, ricopiarono cifra per cifra tutti i valori delle funzioni trigonometriche dall’appendice del libro di matematica. Inutile aggiungere che, in quel modo, non c’era assolutamente alcun problema nell’aggiustare a mano gli spazi tra un valore e l’altro, presentando una tabella anche esteticamente perfetta. In altre parole: già nel codice del programma era perfettamente visibile l’intera tabella da stampare a video, non c’era nel codice assolutamente nient’altro se non la stampa di stringhe di caratteri digitati uno ad uno copiandoli dal libro. L’assistente di laboratorio vide il programma eseguito, tutto perfetto: voto massimo. Nel breve periodo, quella coppia di giovani studenti delle superiori ha ottenuto il massimo rendimento col minimo sforzo, grazie anche ad un supervisore valutatore svogliato ed incapace. Sono anni che non ho notizie dei due, ma nessuno dei due lavora in informatica, magari faranno parte dell’esercito di persone brave ad intrattenere il pubblico, parlando approssimativamente di cose che non capiscono e che non hanno mai visto: l’importante è saper copiare bene, non è necessario capire, come molti dirigenti che si limitano a fare copia-incolla (e persino sbagliando nell’operazione), senza avere nemmeno una vaga idea di quello che hanno ricopiato e presentato.

Valutazioni preventive per la scalata

Tralasciamo per un attimo l’assunto fallace del “livello più alto = più competente” e proviamo a valutare cosa comporti una “scalata” all’interno di un’organizzazione.
Ipotizziamo che, per aumentare di livello o acquisire una posizione più elevata in un’organizzazione, sia necessario acquisire o perfezionare alcune competenze: per migliorare, occorre solitamente tanto tempo (che siano le mitologiche 10.000 ore per diventare perfetti o meno), una quantità di tempo che non sempre si riesce a convertire in maniera efficente senza sprechi. Per chi non ha familiarità col concetto di rendimento termodinamico: in una conversione (non religiosa, ma di energia), ci sono delle perdite tali che non è possibile ottenere, all’atto pratico, un trasferimento perfetto di energia da quella erogata a quella utilizzata – l’esempio più famoso è quello dell’energia luminosa fornita da una lampadina che perde parte dell’energia elettrica che dissipa in calore, ma anche l’energia spesa dal giocatore principiante che non ha imparato ad ottimizzare i movimenti e quindi spreca più energia di quella che realmente serve. Lo stesso principio vale per l’esser promossi: spendo tanto tempo e tanti sforzi, ma molta di quella energia viene dissipata (sprecata) in attività inutili (e spesso la promozione presenta aspetti “black box”, in cui non sappiamo cosa effettivamente valutato e come), oltre al fatto che servono un insieme di fattori che noi raggruppiamo col termine fortuna, perché puoi essere bravissimo ma restare in basso nell’organigramma aziendale o, qualora non assunto in una grande azienda, restare sconosciuto nonostante si sia il genio del paesino che, per vari motivi, non è possibile abbandonare.
Oltre al tempo impiegato nella ricerca e sviluppo di competenze (che siano hard o soft skills), c’è da considerare anche tutta l’energia e il tempo da spendere in attività extra che includono ad esempio tutta quella parte sociale/proattiva del farsi conoscere, farsi considerare dal capo per una promozione ed essere coinvolto in tutte quelle dinamiche da ufficio che spesso si protraggono anche dopo il normale orario lavorativo. In alcuni contesti particolarmente tossici, ma non così rari, queste pratiche comprendono anche essere il primo ad arrivare in ufficio ed andarsene dopo il capo, anche se non c’è nessun altro motivo se non quello di fare “bella impressione” e farsi vedere. Inutile aggiungere che queste dinamiche saranno ancora più forti una volta ottenuta un’eventuale promozione.

La beffa è che speriamo di fare questi sforzi una tantum per poi meritarci una “rilassata” promozione, ma in realtà, aumentando di livello, di solito aumentano anche le ore spese, quindi l’incremento effettivo della paga oraria percepita potrebbe non essere così elevato. Inoltre, mentre da “livello basso” sei un po’ più “scusabile” in caso di errori o se lavori “nella media, attenendoti soltante alle regole minime” (v. quiet quitting), certamente non è il tipo di atteggiamento che ci si aspetta da un dirigente, che dovrebbe essere costantemente proattivo.

Ci sono da considerare anche costi extra, come lo stress, sia durante le ore normalmente adibite alle attività lavorative, sia nei periodi che dovrebbero essere dedicati esclusivamente alla propria “vita privata”: poptrebbero chiamarti a qualsiasi ora (quando va bene, per informarti di attività da svolgere una volta tornati al lavoro, ma spesso è per mollare tutto e collegarsi o andare in ufficio per qualcosa di urgente), oppure si viene “leggermente spinti” a portarsi del lavoro a casa. Inoltre, un posto ad un livello superiore quasi sempre comporta una maggiore esposizione ad una miriade di riunioni ed interazioni con altri gruppi, situazioni che magari non tutti apprezzano: ad esempio, un informatico mediamente introverso (non un nerd disadattato da telefilm, ma semplicemente una persona tranquilla nel senso di “Quiet” di Susan Caine) potrebbe preferire trascorrere la maggior parte del tempo davanti al PC, assorto nel suo stato di Flow in lunghe sessioni di “Deep Work”, non a parlare con decine di semi-sconosciuti con i quali si condivide spesso anche poco. Per molti, passare il tempo a far chiacchiere nella stanza dei bottoni è un’attività entusiasmante, ma per altri potrebbe essere qualcosa di faticoso che non vale l’incremento stipendiale nè il prestigio derivante dal rivestire una carica più alta.

Di seguito, un grafico qualitativo un tanto al Kg, non quantitativo, per esprimere il concetto di riduzione di tempo/tranquillità all’aumento di livello in un’organizzazione. Per “lavoro effettivo e pensato”, intendo anche il tempo in cui, benché magari a cena fuori, il lavoro (in maniera consapevole o meno) continua a “girare in RAM”: pensieri consci di attività da svolgere entro certe scadenze o preoccupazioni dovute alle proprie responsabilitò, che generalmente crescono salendo nella gerarchia.

Il grafico non potrebbe mai essere quantitativo, visto che il carico di lavoro e le responsabilità variano tra organizzazioni, ma anche all’interno dello stesso dipartimento di un’organizzazione, oltre che dall’indole di una persona

Qualora non fossa chiara la simmetria delle due linee, ho indicato tratteggiata la somma dei due tempi come costante (112h a settimana, 16h al giorno perché ho escluso le 8h raccomandate di sonno quotidiano, fondamentale come ho già scritto qui), ma in realtà la situazione è molto spesso anche peggio di così: lo stress lavorativo può portare a dormire poco/male e causare danni psicofisici anche permanenti. Ovviamente non è uguale per tutti: ho conosciuto persone che vivono addirittura inconsapevoli delle proprie responsabilità, o perché nella loro vita non hanno mai avuto imprevisti o perché hanno avuto la fortuna di avere sempre collaboratori in gamba che riuscivano ad attutire, nei limiti del possibile, ogni rischio, senza nemmeno bisogno di disturbare il capo, se non per comunicargli al limite: “abbiamo avuto questi problemi, ma abbiamo già risolto”. A volte, invece, è semplicemente per attitudine: c’è il magazziniere che va in ansia per aver disposto male un oggetto sullo scaffale (e magari continua a pensarci anche una volta tornato a casa, preoccupandosi di eventuali ripercussioni) e il direttore di una centrale nucleare che la prende stoicamente anche in caso di gravi incidenti pensando che tanto siamo nati mortali. Ancora una volta: non c’è un modo giusto/sbagliato di affrontare le situazioni, ma probabilmente se la passa meglio chi non si fa troppi problemi (finché i problemi seri non accadono).

Come scalare

Arrivati a questo punto, nella speranza di aver acquisito un po’ di consapevolezza, vediamo quali potrebbero essere alcuni modi per aumentare le probabilità di “arrivare in alto”. Ulteriore doverosa premessa: cercherò di minimizzare ogni possibile considerazione etica/morale, in un’astrazione tale da rendere validi gran parte dei suggerimenti sia se si lavora per la più candida ed efficace organizzazione di volontariato, sia se si tratta di organizzazioni di criminalità organizzata (come va di moda, prontamente aggiungo: “mi dissocio!”). Ammonirei però di prestare attenzione: “Che tu ottenga ciò che desideri!” è considerata una antica maledizione orientale; se si cerca di far carriera in un’organizzazione che non è perfettamente in linea con i nostri più profondi valori, potremmo iniziare ad avvertire un po’ di disagio e la dissonanza cognitiva, quando ignorata, presenterà un conto amaro, dopo aver maturato nel tempo interessi composti. Estremizzando e semplificando il concetto: non c’è bisogno di leggere “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” di Hannah Arendt per capire che molti dei gerarchi nazisti, affettuosi padri di famiglia, erano davvero convinti di stare soltanto “eseguendo ordini” (e con uno zelo ed un’efficienza tali da “migliorare le prestazioni” del sistema), in un paradigma che oggi potremmo chiamare “win-win” (esecuzione degli ordini oltre le aspettative dei loro superiori e promozione per loro). Lo stesso avviene per chi oggi lavora con grandi quantità di dati raccolti addirittura dai giocattoli per bambini piccoli per indottrinare giovani menti sulle ideologie del momento e soprattutto vendere merd… OK, avevo detto niente morale da parte mia, chiudo qui la parentesi.

Possibili cheating imbrogli modi per avanzare di livello:

  • Mostrati proattivo ed interagisci con i colleghi e con altri team, anche quando sono interazioni “vuote”: ciò che viene valutato è anche il “quanto traffico” fai, non solo il contenuto.
  • Manda ogni tanto notifiche/messaggi a tutti (e sempre in copia il capo) con “ricordo a tutti l’importanza di …”, aggiungendo stupidaggini che tutti conoscono, banali al punto di “non aprire email di phishing” (ho visto gente fare carriera in ambito informatico in questo modo
  • Poni domande col giusto equilibrio di dimostrare interesse su un argomento che sta a cuore al capo, ma non così banali al punto di evidenziare che non ne capisci troppo; mi raccomando, solo dettagli a cui il capo sa rispondere, non vogliamo mica farlo sentire ignorante e inadeguato! Oppure digli: “Stavo cercando dettagli su questo argomento e ho trovato questo…”.
  • Al termine di ogni singola attività, anche se a prova di cerebroleso, alza la manina, con l’enfasi di un bambino che urla tronfio: “Maestra, ho fatto questo!”.
  • Partecipa ad ogni possibile riunione, a volte provando anche ad imbucarti: il capo noterà che sei sempre presente e provi ad assisterlo ed aiutarlo, anche solo meramente con la presenza fisica. Vale il principio di psicologia sociale della prossimità e quindi sarai tra i primi a venirgli in mente per lavoro da fare, certo, ma anche in caso di promozioni. Cerca di mostrarti spesso anche ad altri dirigenti: di solito, il meccanismo di promozione coinvolge dei collegi/commisioni composte da diversi dirigenti e difficilmente si voterà a favore di una persona mai sentita.
  • Come estensione del punto precedente: partecipa ad ogni pranzo aziendale, cercando di sederti al tavolo col superiore e cerca ogni modo possibile per esser presente ad ogni evento sociale in orario extra-lavorativo.
  • Trova un perfetto equilibrio per renderti “prezioso” e “tirartela” come se fosse un corteggiamento: se sei troppo servile, il capo potrebbe pensare che tu continuerai a schiavizzarti anche rimanendo con lo stesso livello e stesso salario (perché sprecare risorse aziendali quando lavoreresti anche per meno?). Di conseguenza, prova a far capire che potresti fare di più se avessi la giusta motivazione.

Molti dei punti esposti vanno non solo contro il mio modo di fare, abituato a lavorare a testa bassa e in silenzio (a tenere pronti i dettagli di un compito terminato bene ed in anticipo, ma rispondere/mostrarli solo quando chiesto, senza sventolare a tutti quanto ho lavorato), ma anche contro la logica che ho imparato durante il corso da pioniere di primo soccorso in Croce Rossa quando avevo 18 anni: solitamente, più un ferito urla, meno c’è da preoccuparsi (chi è davvero grave, non urla). Trasportato in ambito lavorativo: quanto più un mio collaboratore cercva di leccarmi il culo compiacermi e mostrarmi cos’aveva fatto, più lo ignoravo (emblematico quando una volta uno di loro mi disse: “Guardi, ho scaricato questa cosa (che non avevo chiesto) e messa lì”, gli risposi impassibile: “E quindi?”, facendogli così capire che non amo particolarmente il vuoto servilismo). Mi concentravo invece su chi si sbatteva per ore in silenzio su un sistema meccanico o informatico: era un piacere vederli immersi nel loro stato di flow in lunghissime sessioni di deep work (e li ho sempre difesi ferocemente dai miei superiori che volevano chiedere loro di svolgere attività futili, piuttosto a volte, se davvero necessarie, le svolgevo io). Quando poi facevano pausa, approfittavo per chiedere i dettagli e mi riempiva di gioia anche il loro entusiasmo nel condividere soddisfazioni e frustrazioni del lavoro su sistemi complessi.
Sembra invece che i manager debbano preoccuparsi e dare più attenzioni a chi sbraita di più per farsi notare, anziché prestar attenzione a chi in silenzio opera bene tutti i giorni, spesso più silenzioso degli altri per due motivi principali:

  • è impegnato a lavorare anziché passare il giorno a vedere come essere promosso o spulciare i possibili benefit nella sua azienda/ente;
  • si fa notare meno dal capo perché è quello che gli rende tutto facile e trasparente, nel senso di risolvere in maniera autonoma i problemi, in maniera tale che non scalino a lui, al massimo gli porta qualche pratica da firmare se necessaria la sua firma/approvazione, non sta lì ad importunarlo se non strettamente necessario, perché non ne ha bisogno e valuta importante il suo tempo.

Si tratta spesso di un giuoco di negoziazione e compromessi: per tenere un dipendente “mediamente motivato”, una promozione dev’essere non facile e data a tutti, ma nemmeno impossibile. Da questo punto di vista, fu illuminante per me, all’epoca non ancora trentenne, quanto mi disse un collaboratore (nonché eccezionale batterista), che era già ai gradi apicali della sua categoria: “Io lavoro bene ed oltre quanto previsto perché è il mio carattere e perché mi piace, ma ormai sono arrivato (al grado massimo), quindi non c’è mordente”. In seguito, ho infatti notato che uno dei motivi di grande insoddisfazione nei giovani che arrivano velocemente a raggiungere importanti risultati è: “Sono arrivato (laureato, trovato un buon lavoro, sposato, pensionato o aggiungete quello che volete). E ora?”. Ecco perché, come avviene per le proprie relazioni, per le proprie finanze e tanto altro, è importante diversificare: mentre ci si dirige verso un obiettivo, coltivare anche altri interessi. Sempre.

Sfruttare le potenzialità

Resta comunque il discorso che ho ascoltato una domenica da un cappellano militare (in altri termini: un prete in uniforme, con tanto di gradi da ufficiale): “Se tutti vogliono comandare su una barca, non solo non si decide mai dove andare, ma nessuno rema!”. Pressioni familiari e sociali spesso spingono affinché si venga su con un titolo di studio elevato e l’aspirazione a diventare dirigenti o presidenti di una propria azienda, ma non è detto che sia assolutamente la situazione migliore per tutti. Sono i danni della crescente FOMO (fear of missing out), di non perdere l’opportunità quando si hanno determinate caratteristiche e possibilità. Come dire: guarda che bella giornata, oggi sono anche in salute, quindi è necessario che io vada da qualche parte, ad esempio a scalare una montagna o arrivare a nuoto su un’isola! Certo, potrei; ma potrei anche starmene tranquillamente disteso al sole a leggere un libro. L’essere più intelligenti ed istruiti (che non sono assolutamente sinonimi) dà più possibilità, rispetto a chi è purtroppo nato meno dotato e non ha neppure avuto mezzi/voglia di studiare, ma non per questo ci si deve sentire “in dovere” di effettuare la scalata nella propria organizzazione. Conosco persone molto intelligenti e molto preparate che hanno optato per un downshifting ed ora vivono molto più felici e serene, riscoprendo la gioia del praticare altre attività che non siano quelle lavorative.
Inoltre, se in un’azienda si respira un’aria tossica (in senso figurato, non parlo di industrie chimiche non a norma), è molto probabile che se la passino male a tutti i livelli: come già scritto, si sale solo per scoprire che si è più stressati di prima. Purtroppo, una certa cultura sinistroide “contro i padroni” propaga un’idea fantozziana in cui l’operaio deve sottostare ai capricci di megadirettori che invece se la spassano tutto il tempo.
Prima di intraprendere la scalata nell’organizzazione, prendiamoci un attimo per riflettere, prima di ritrovarci in un punto del sentiero che avremmo voluto evitare: possiamo sempre uscirne, ma potrebbe essere meglio evitare in primo luogo di andarci. La chiave è sempre la consapevolezza.

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