Equilibrio, resilienza, zona di conforto e tutto il resto

Equilibrio è un concetto vago. Certo, in fisica i tipi di equilibrio son ben definiti (v. immagine sotto), ma la vita è un sistema molto complesso con relazioni non lineare e spesso con variabili di cui non siamo nemmeno vagamente consapevoli, quindi è estremamente difficile modellare (tradotto dall’inglese modeling, trovare un modello matematico) la nostra esistenza e tirar fuori sistemi di equazioni per poter poi trovare intervalli di valori tali per cui il sistema possa definirsi in equilibrio.

Equilibri. Indifferente: lasci la palla e resta lì, se la sposti resterà nella nuova posizione; stabile: al di sotto di un certa intensità di forze esterne, la palla tenderà a tornare nella sua posizione di equilibrio iniziale: instabile: anche una piccola intensità di forze esterne può far rotolar via la palla fuori dalla sua posizione di equilibrio.

Per alcuni, inoltre, un equilibrio non è nemmeno auspicabile: ci piace un certo grado di stabilità, certo (voglio andare a letto questa sera e risvegliarmi possibilmente nello stesso posto e non invece accorgermi improvvisamente di trovarmi su un ramo di un albero nella giungla). Esiste tuttavia in noi anche un certo grado di desiderio di novità: non vogliamo trascorrere tutti i giorni nello stesso identico modo, immersi nella monotonia di un’esistenza che si ripete identica con gli stessi eventi che già prevediamo totalmente perché già vissuti, come nel giorno della marmotta in “Ricomincio da capo” (o nel più recente rifacimento italiano, “È già ieri“). L’esatto opposto è drammatico: basta chiedere a chi ha esperienza di parenti ed amici che soffrono di malattie neurodegenerative in cui, al contrario, ogni conoscenza sembra nuova (anche se in realtà alcuni studi mostrano che, a livello inconscio, è possibile sviluppare nuove abilità, benchè si penserà sempre di provarle per la prima volta). Inoltre, molte persone apprezzano gli imprevisti, situazioni da risolvere (il che spiega anche il successo di rompicapo, enigmi e giochini vari che vanno dalla settimana enigmistica alla risoluzione di importanti teoremi matematici, non necessariamente dietro compenso o notorietà). Non tutti desiderano un intervento esterno perennemente accomodante come in “The Truman Show“.
Spesso la gioia, come dice anche Mihaly Csikszentmihalyi nel suo stupendo libro “Flow”, deriva dallo stare immersi in uno stato di concentrazione nel realizzare o risolvere qualcosa nè troppo facile nè troppo difficile, ma un minimo di “senso di sfida/difficoltà” dev’esserci; come potrà confermare inoltre un autore, uno sceneggiatore o un musicista professionista, spesso un’opera di successo è quella in cui si creano delle tensioni che poi si risolvono. Un insegnante di jazz, tornato dal Berklee College of Music, tanti anni fa, mi disse: “un buon standard jazz (è il nome che si dà ai brani classici che diventano parte del repertorio comune dei jazzisti) è come la vita di una persona: per essere interessante, ci devono essere dei guai che poi si risolvono, non può essere monotono”. Questo cosa c’entra con l’equilibrio? Semplice: avere un’equilibrio stabile è come ascoltare un intero album di canzoni con lo stesso giro di 3 o 4 accordi per tutto il tempo; sì, la maggior parte della musica commerciale è effettivamente realizzata in quel modo ed è il motivo per cui un musicista (o un ascoltatore intenzionale) solitamente si annoia prima di arrivare a un minuto di ascolto. Non c’è un giusto o uno sbagliato, ci sono abitudinari o persone affette in maniera importante da disturbi come autismo che non vorrebbero assolutamente cambiare una virgola in tutte le loro abitudini, ma per altri quella vita potrebbe essere una noia alla lunga mortale (proprio nel senso della celebre “Lentamente muore” di Martha Medeiros in merito a chi diventa schiavo dell’abitudine e non prova nulla di diveso).

Quindi il mio modesto e forse banale consiglio è: provare. Non però nel senso di persevare nello stesso esercizio, come nel “provare, provare, provare” di “Non ci resta che piangere”, quanto piuttosto sperimentare, esplorare, focalizzandosi al contempo agli stimoli esterni e alla risposta del nostro corpo (sì, tutto il corpo, noi non siamo solo la nostra mente). Ad esempio: se segui tutte le settimane la stessa identica dieta, ogni tanto prova qualcosa di diverso, osa! Esempi ancora più concreti? Oggi, per la prima volta in vita mia, ho provato una pizza con frutti di mare. Probabilmente non la ordinerò mai più: prima avevo dei pregiudizi, ma oggi ho deciso di provarla – realizzata da uno dei migliori pizzaioli napoletani che io abbia mai conosciuto, ottima come tutte le altre che realizza, ma non ha incontrato i miei gusti. Niente di grave: se mi fosse piaciuta, probabilmente l’avrei aggiunta alla lista di quelle pietanze da provare ogni tanto, ma così non è stato. Chissà quale sarà il prossimo esperimento (e di cibi insoliti ne ho assaggiati davvero tanti in diverse parti del mondo). Molti, quando vanno a pranzo o cena fuori, ordinano sempre le stesse cose, spesso sempre dallo stesso locale di fiducia, guai a cambiare. C’è chi lo fa perché per lui mangiare non è qualcosa di così importante, è solo un modo per alimentarsi nel modo più efficace possibile (in termini di tempo e denaro), c’è chi invece lo fa per paura di restare deluso o disgustato e quindi non esce fuori dalla sua zona di conforto (ne parlo tra poco). Vale per tutto: ad esempio, l’equivalente del mangiare sempre e solo panini con hamburger in catene di fast food, è ascoltare sempre lo stesso genere musicale commerciale – e, come mi diverte ogni volta che esce l’argomento con un nuovo conoscente, sentire: “io ascolto tutto: tutto quello che passa la radio” (un po’ come dire: io guardo tutti i colori, tutti i colori di quella scatola, indicando un set in cui son rimasti solo due pennarelli, senza aver mai visto altri colori). Probabilmente non ci piacerà davvero nulla di diverso, ma almeno diamoci un’opportunità di provare, potremmo scoprire qualcosa che ci piace di più e ci fa stare meglio.

Equilibri e routine

Ultimamente, amplificato dai social network, è tornato in auge il concetto di “morning routine” e, in generale, di “routine produttive”: il celebre vecchio detto “early to bed and early to rise (makes a man healthy, wealthy, and wise)”, tradotto ed ampliato in tutte le salse nei vari libri alla “Miracle morning” ha portato alla creazione dei vari gruppi di persone fomentate che fanno a gara a chi si alza prima (non bastavano le 6 antimeridiane, c’è chi si spinge alle 5 e addirittura alle 4, orario che una persona sana di mente chiama “notte”, non “mattina”); osservando alcuni video di queste “morning routine”, sembra di vedere degli appartenenti ad una setta (o degli auto-proclamati guru indipendenti) che cerca di convincere che tutto il mondo debba alzarsi a quell’ora per poter godere di tanti benefici (ignorando anche il fatto che siamo biologicamente/geneticamente diversi, alcuni sono allodole, altri gufi ed altri delle vie di mezzo, come avevo scritto nel riassunto di Why We Sleep). L’idea malsana è che esista un rituale valido per tutti, una scaletta che vada bene per ogni essere umano, a prescindere da condizioni psico-fisiche, vincoli affettivi e lavorativi e tutto il resto: qualcosa che solitamente prevede corsa a prescindere dalle condizioni metereologiche, doccia ghiacciata, meditazione, cura della pelle, lettura di libri o giornali, lavorare al proprio progetto personale, pianificare la giornata se non lo si è fatto la sera prima e così via; e, dopo 4 o 5 ore spese in quel modo, iniziare a lavorare. Alcuni documentano anche il resto della giornata, tutto pianificato secondo certi criteri in base alla moda del momento in materia di produttività (perché la tossica hustle culture ci insegna che siamo praticamente dei robot programmati per produrre, non si sa esattamente cosa, ma molto probabilmente depressione). Anche un questo caso, facciamo un favore a noi stessi: sperimentiamo ascoltando il nostro corpo e la nostra mente. Mi sento davvero meglio inserendo quell’attività a quell’ora e per tutto quel tempo o con quella intensità? Forse cerco un equilibrio diverso da quello che pare vada bene per Elon Musk che dichiara di aver dormito poco, male ed in ufficio.

Equilibrio in movimento

Oltre ad essere quindi personale, l’equilibrio che molti di noi cercano non va inteso come qualcosa di statico, che si raggiunge una volta per poi mantenerlo apportando lievi correzioni perché, che lo desideriamo o noi, le situazioni cambiano, il cambiamento è inevitabile, se non altro perché invecchiamo e ci dirigiamo inesorabilmente, giorno dopo giorno, verso il cambiamento per noi più significativo: quello da vivi a morti (in base alle diverse interpretazioni di ognuno, un passaggio di stato da corpo a anima celeste, reincarnazione terrena, scomposizione e reimmissione di molecole ed energia nell’universo e così via, ma una transizione c’è sempre). Ne consegue, quindi, che non possiamo evitare il cambiamento, che sia per motivi più o meno dipendenti da noi (es: cambio di lavoro, nascita di un figlio) o esterni (es: un terremoto che distrugge la casa che era il nostro unico bene materiale, la perdita di una persona cara, lo scenario geopolitico che cambia creando pesanti ripercussioni). Possiamo quindi immaginare l’equilibrio come una condizione che ha bisogno di continui aggiustamenti di rotta, per compensare la variazione di direzione ed intensità di queste forze interne ed esterne. Inoltre, col passare del tempo ed in base a specifici momenti della nostra vita, potremmo voler cambiare il punto di equilibrio e la direzione verso cui ci muoviamo. Per fare un esempio pratico: può esserci un momento in cui mi sta bene vivere in clausura per prepararmi agli esami universitari, trasformandomi in un essere umano che pensa a mangiare e dormire in modalità sopravvivenza, in cui la quasi totalità del tempo è impiegata nello studio, la mia ricerca di equilibrio in tal caso consiste nell’ottimizzare anche il numero di minuti in cui mi dedico alla preparazione del cibo e all’igiene personale (ho conosciuto anche studenti che non si cambiavano per giorni, restando perennemente in pigiama). Quello che era quindi il mio equilibrio in quel periodo specifico potrebbe non andarmi bene qualche giorno dopo, in cui cerco di aggiungere anche ore di svago, di socialità, di buona cucina e tutto il resto. Per fare un paragone col mondo fisico, si può immaginare l’equilibrio come quello necessario per fare andare bene (per il nostro concetto di andar bene) un veicolo su strada: occorre rivedere periodicamente le parti meccaniche per controllare che ruote e volante/manubrio siano in ordine, ma anche regolarci di conseguenza quando cambia il carico e la sua disposizione, come anche quando cambia la strada che stiamo percorrendo o quando vogliamo intraprendere un’altra strada. Non possiamo continuare con lo stesso assetto per sempre, nè immaginare che l’equilibrio sia da intendere come il punto in cui un elicottero in hovering deve rimanere per diverso tempo: l’equilibrio è dinamico perché, come detto prima, possiamo esserne consapevoli o meno, ma siamo sempre in movimento. Il vento ogni tanto cambia (può essere dovuto a qualcosa di trascurabile vicino o dentro di noi, ma anche ad eventi su scala globale, come attentati, pandemie o guerre), ma non necessariamente è un male: se da un lato non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare, è anche vero che un vento che pensavamo a sfavore potrebbe farci notare che da crisi nascono opportunità. Il che non vuol dire che dobbiamo necessariamente cercare di mantenere quella rotta, nè cercare insistentemente di tornare al punto in cui eravamo prima che il vento iniziasse, come vorrebbero tutti quegli utili idioti della resilienza a tutti i costi.

Perché NON dovresti sempre ricercare la resilienza

Una delle buzzword che caratterizzano gli ultimi dieci anni è un termine abusato, “resilienza”. Com’è nato tutto questo gran parlare di questo termine? Semplicemente, la psicologia ogni tanto prova a voler apparire per quello che non è: “una scienza dura” (ho scritto più volte in merito alla differenza tra scienze dure e molli). Accade ogni tanto che qualche esponente della psicologia si invaghisca di alcuni termini e concetti utilizzati in campi scientifici in senso stretto, per poi mutuarli nel suo settore. Ed ecco che resilienza, capacità di un materiale di assorbire energia elasticamente quando sottoposto a un carico o a un urto prima di giungere a rottura (o, per estensione ai sistemi: capacità intrinseca di un sistema di modificare il proprio funzionamento prima, durante e in seguito a un cambiamento o a una perturbazione, in modo da poter continuare le operazioni necessarie sia nelle condizioni previste sia in condizioni impreviste) diventa (dagli studi di Block, Garmezy, Elder ed altri): “capacità di fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici”. Che, in linea di massima, è un bene. Ma è sempre auspicabile un “ritorno alla normalità”? Ad esempio, c’è chi cerca di voler tornare a tutti i costi al pre-CoViD-19 e a tal punto distinguerei le abitudini pre-“smart working” (più correttamente: lavoro a distanza forzato/spinto dalle temporanee misure contenitive) in due categorie:

  • abitudini che pensavamo essere le migliori (o semplicemente sulle quali non abbiamo mai riflettuto, dandole per “normalità”): trascorrere oltre 8 ore in compagnia di persone con le quali spesso si condivide solo il bisogno di portare il pane a casa e odio/disgusto/noia per la propria professione;
  • abitudini di cui già (in maniera manifesta o meno) ci lamentavamo: passare 1h nel traffico in mezzo ad altre facce spente che si scaccolano nella presunta invisibilità del proprio abitacolo e che ogni tanto si scambiano sguardi di indifferenza (faccio finta di non vederti così non ti do la precedenza, guadagnando qualche secondo anziché alzarsi ad un’ora decente) o invettive colorite in base al dialetto e al contesto.

Vogliamo davvero, dopo una qualsivoglia crisi (che implichi cambiamenti nella salute, nelle relazioni e in tanti altri aspetti della nostra esistenza), ritornare allo stato precedente con al massimo una lieve modifica anziché interrogarci sui nostri modelli prima, durante e dopo la crisi e rivedere seriamente gli aspetti fondamentali?
Non sto dicendo sia sbagliato “ricucire” ciò che si strappa (per quanto un foglio stropicciato o strappato non torna come nuovo), che non si possano anche impreziosire con oro le crepe nei manufatti di ceramica giapponese distrutti come nell’arte del Kintsugi, ma nella foga di tornare ad un presunto equilibrio pregresso (che evidentemente non era così stabile) perdiamo l’opportunità di guardare all’antifragilità in noi e nei sistemi. Mi riferisco al concetto espresso nell’omonimo libro di Nassim Taleb: alcuni oggetti sono fragili e vengono facilmente distrutti da forze esterne; altri sono robusti e quindi resistono, pressoché immutati, ad impatti; esistono però entità che sono antifragili, che addirittura beneficiano dell’impatto di forze esterne. Quello che si cerca di fare quando si vuole tornare necessariamente allo stato precedente è pretendere robustezza, anziché cercare di evidenziare e potenziare antifragilità, per star meglio nel momento presente e futuro.
L’ultima nota severa pandemia non è assolutamente la prima nè l’ultima spinta al cambiamento, perché grandi cambiamenti ci sono stati anche durante la rivoluzione industriale e durante tutta l’evoluzione che conosciamo; per coerenza, chiederei a questi fanatici entusiasti del ritorno in ufficio a tutti i costi di tornare a vivere nelle grotte e vivere solo della caccia a mani nude e dei frutti della terra da loro raccolti.
Sono drastico? Nient’affatto: è l’ottusità di voler tornare necessariamente ad uno stadio precedente che lo è. Da giovani adolescenti avevamo, chi più chi meno, trovato dei vaghi equilibri precari, nel vivere a casa dei nostri genitori (salvo casi particolari), andando a scuola per metà giornata da svegli e senza tutte le preoccupazioni tipiche dell’età adulta. Poi siamo cresciuti e ci son stati cambiamenti che ci hanno portato a terminare gli studi e solitamente cercare un lavoro. Dovremmo invece urlare al bisogno di resilienza e auspicare un ritorno alla vita da ragazzini delle medie con i nostri genitori che si preoccupano di darci un tetto sopra la testa, il piatto pronto in tavola in cambio di limitazioni di libertà? Ah no, perché poi questo va in contrasto con un altro concetto abusato da ogni psicologo da quattro soldi e da ogni santone mindsettato: uscire costantemente dalla “zona di comfort”.

La zona di conforto si chiama così per un motivo

La “comfort zone” è quello spazio/stato psicologico in cui un individuo percepisce tutto come familiare e si sente a suo agio. Salvo i casi in cui non ci si schioda da una certa condizione fisica e mentale per problematiche anche gravi (un esempio tra tanti: gli hikikomori che non escono dalla propria stanza e che non hanno più contatti nè sociali, nè in generale col “mondo là fuori”), non c’è assolutamente nulla di male nel ricercare questa sensazione (che comporta solitamente bassi livelli di ansia e stress) e nel volerci anche rimanere. A tutti i grandi motivatori de noantri che insistono con il continuo “bisogna uscire dalla zona di comfort”, vorrei tanto chiedere quali disturbi mentali li affligono, perché suona come: “stai così tanto bene seduto in quel bosco, equipaggiato per mantenere una temperatura ottimale e ti senti in pace col mondo? Fai male! Corri subito in un posto dove ti senti inadeguato e possibilmente soffri!”. Se è vero che cercare di spingersi, ogni tanto, nella zona di crescita/apprendimento (o di “performance ottimale” secondo Alasdair White) può essere utile per addestrarsi ed imparare a cavarsela anche in altri contesti, se io sto bene in quel periodo della mia vita seduto nel bosco, per quale strampalato motivo dovrei continuamente cercare situazioni di allenamento? Suggerirei a questi fenomeni di imparare a praticare un po’ di sana mindfulness, di godersi il “qui e ora”, perché altrimenti si rischia di diventare come molte persone che vivono costantemente proiettate nel passato e nel futuro (come dice anche Russ Harris in “The Happiness Trap”, la nostra mente è una macchina del tempo, ma, benché evoluzionisticamente utile ai fini di sopravvivenza, spesso questo è un ostacolo alla nostra felicità), passando tutta la settimana lavorativa ad immaginare il fine settimana e, durante la vacanza, a pensare al ritorno a lavoro. Cerchiamo di capire che, se si chiama “zona di conforto”, c’è un motivo; altrimenti, si chiamerebbe zona di disagio (situazione purtroppo vera per i casi come quello di chi soffre disturbi come fobia sociale e tanto altro; in tal caso, sì che avrebbe senso cercare di uscire il prima possibile dalla zona di disagio). Una volta trovato un equilibrio all’interno della propria zona di conforto, con le nostre abitudini e le nostre certezze, cerchiamo di goderci il momento, ogni tanto aggiustandoci un po’ perché ci accorgiamo di non essere perfettamente a nostro agio, ma evitiamo tutta questa fretta data dalla retorica del miglioramento continuo cercando le situazioni più stressanti possibili. Del resto, ci abbiamo messo tanto tempo ed impegno per trovare il nostro posticino comodo in equilibrio seduti sulla nostra vetta, respiriamo e ammiriamo il paesaggio godendo di ciò che ci circonda e che siamo riusciti a costruire ed incastrare; se altri vogliono invece andare sempre di corsa di vetta in vetta, faticando a testa bassa senza godersi lo spettacolo, liberi di farlo, ma anche in questo caso non è detto che debba andar bene per noi.

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