Noi e il male (fuori e dentro di noi)

Nota preliminare: quello che segue non è un articolo che si prefigge lo scopo di essere un’esaustiva dissertazione su complesse tematiche etico-neuro-psico-socioeconomico-filosofico-semiotico-letterarie con un un rigoroso approccio epistemologicamente inoppugnabile. Se qualcuno inoltre si ritiene facilmente impressionabile: ognuno è libero di sentirsi suscettibile a proprio piacimento, ma io sono “responsabile” di quello che scrivo, non di quello che un altro capisce.

A quasi tutti noi piace pensarci come brave persone (anche se il criminale sortisce in molti un certo fascino o addirittura voglia d’emulazione), siamo innamorati dell’idea che l’umanità sia fondamentalmente buona. Adoriamo l’idea di essere naturalmente inclini a fare del bene agli altri, come nelle commedie romantiche e nelle tante clip video che girano su Linkedin (che, da questo punto di vista, sta diventando il nuovo Facebook). Continuiamo a ripeterci che, se solo non fosse per l’avidità che ci spinge alla ricerca di beni materiali e successo (colpa dei cattivi valori propagati da non meglio precisati poteri forti che comandano la società), questo sarebbe un mondo perfetto e felice, come quello dipinto da qualche nota réclame di prodotti per la colazione o da qualche copertina di “Svegliatevi!” e “Torre di guardia”.

Una copertina del periodico “Torre di guardia”

Siamo davvero sicuri di essere così istintivamente portati alla mutua (e disinteressata) collaborazione e a fare del bene al prossimo?
Per chi confida nella bontà dell’essere umano, può essere utile una (ri)lettura di famosi esperimenti di psicologia sociale, come:

Quand’anche partiamo con buone intenzioni, siamo comunque portati a conformarci agli altri più di quanto immaginiamo, come rilevò oltre mezzo secolo fa Asch in un suo noto esperimento. E se qualcuno può pensare che gli effetti si concretizzino solo in azioni consapevoli e superficiali, come scegliere un vestito in un determinato contesto sociale, uno studio sull’obesità contagiosa mostra gli effetti “tangibili” dell’influenza degli altri su di noi (no, non parlo di trasmissione ad opera di virus e batteri): Assessing Social Contagion in Body Mass Index, Overweight, and Obesity Using a Natural Experiment.

Farsi condizionare, che ci piaccia o no, può spiegare l’ascesa di diversi personaggi politici, con effetti tanto più nefasti tanto più è alto il grado di istruzione ed “efficienza”: gli effetti visti nella Germania durante la seconda guerra mondiale si sarebbero difficilmente potuti ottenere altrove, con apparati burocratici meno efficienti, esecutori meno leali e coraggiosi e scienziati meno capaci e motivati. Non seguiamo necessariamente ciò che eticamente più giusto (per il semplice fatto che è difficile dire cosa sia “giusto” in termini assoluti e anche perché l’etica cambia nel tempo); spesso seguiamo ciò che ci sembra giusto al momento (e che potrebbe rivelarsi terribilmente sbagliato in seguito).
E questo, nell’era della produttività (o “della tecnica”, come ama ripetere Umberto Galimberti) può portare a risultati orribili: Zygmunt Bauman (sociologo e filosofo polacco, 1925-2017, autore di fama mondiale di “Liquid Modernity”) ha scritto in “La modernità e l’Olocausto” (1989) che solo i moderni paradigmi industriali e burocratici hanno reso possibile l’Olocausto: tutte le persone e le macchine nel processo erano molto efficienti e produttive, solo usate in una direzione sbagliata (producendo non merci, ma cadaveri). Se si pensa che una maggiore istruzione potrebbe salvarci da un’altra orribile tragedia come quella, ricordiamo le parole di Bauman: “Non furono selvaggi analfabeti, ma laureati dei migliori sistemi educativi dell’Occidente a progettare le camere a gas usate per bruciare milioni di uomini, donne e bambini innocenti in Germania”.
Più in dettaglio, come riporta il recentemente scomparso Mihaly Csikszentmihalyi nel suo celebre libro “Flow: The Psychology of Optimal Experience“:
“Adolf Eichmann, il nazista che con calma mandò decine di migliaia di persone nelle camere a gas, era un uomo per il quale le regole della burocrazia erano sacre. Probabilmente ha sperimentato lo stato di flow mentre ricombinava gli intricati orari dei treni, assicurandosi che lo scarso materiale ferroviario fosse disponibile dove necessario e che i corpi fossero trasportati al minimo costo. Non sembrava mai chiedersi se ciò che gli era stato chiesto di fare fosse giusto o sbagliato”.

Sì, la storia la scrivono i vincitori, l’etica cambia, alcuni vengono bollati come “100% cattivi” e qualcuno vorrebbe tirar giù le opere costruite sotto la loro guida – non sono qui a scrivere “però hanno fatto anche cose buone”, spero solo che a nessuno venga in mente di distruggere i computer venendo a sapere che l’antenato del moderno PC (la prima macchina programmabile, il calcolatore elettronico Z1) fu sviluppato dall’ingegnere Konrad Zuse proprio nella Germania di quel periodo buio.

Konrad Zuse
Konrad Zuse

Eh sì, l’informatica non è nata in qualche garage degli Stati Uniti (ma ormai ci siamo fatti l’abitudine alla narrativa filoamericana, tanto che al cinema prendiamo per buono che dal carro armato che libera i prigionieri in un campo di sterminio esca un americano e non un russo, no?).

“Brutto Hitler, cattivo!”. Quindi ti cancello.

Per alcuni, non basta depennare il noto Adolf dai libri di storia. Esistono gruppi fomentati dalla “cancel culture” che proporrebbero di cancellare anche tantissime altre figure storiche, come Cristoforo Colombo (ridotto a schiavista) o persino Martin Luther King perché la sua risposta ai disagi di un ragazzo omosessuale, nel 1958, fu il consiglio di visitare uno psichiatra per farsi curare da quella che poteva essere “non una tendenza innata, ma qualcosa che è stato acquisito culturalmente”. Ce n’è per tutti, basta cercare su Internet e qualcosa di “scomodo” o controverso ce l’hanno tutti.
Perché tutto questo revisionismo storico? Semplice: perché i “guerrieri della giustizia sociale” (in breve: un rumoroso manipolo di sedicenti progressisti a cui piace sentirsi migliori degli altri) esigono il purismo. Il movimento woke non va d’accordo con il Taoismo: purezza assoluta, niente yin e yang.

yy
Yin e Yang

Come scrisse il filosofo e premio Nobel per la letteratura Aleksandr Isaevič Solženicyn, dopo esser stato “ospite dei campi di rieducazione” sovietici:
“A poco a poco, realizzai che la linea che separa il bene dal male non passa attraverso gli stati, né tra le classi, né tra i partiti politici, ma attraverso ogni cuore umano e attraverso tutti i cuori umani. Questa linea si sposta. Dentro di noi, essa oscilla negli anni. E anche nei cuori sopraffatti dal male, si conserva una piccola parte di bene. E anche nel migliore di tutti i cuori, lì rimane… un piccolo, non sradicato, angolo di male”.

Vuoi provare a spiegare che esistono compromessi, che siamo creature imperfette, che il vero “revisionismo” dovrebbe consistere esattamente nel contrario, ovverosia capire (con freddo distacco dopo aver fatto sedimentare nel tempo calde emozioni) il contesto dell’epoca senza giudicarlo con occhi moderni (altrimenti ci limitiamo a dire che non dovremmo più fruire delle opere di molti artisti e filosofi dei secoli passati perché alcuni avevano “il vizietto” diffuso di essere molto intimi con alcuni giovanissimi allievi). Ci si copre invece gli occhi e, urlando: “No, hai torto, è un peccatore totale e non cambio idea!”, ci si tappano le orecchie, come alcuni religiosi fondamentalisti quando si prova a intavolare un ragionamento logico con loro (per gli amanti della TV trash: è sufficiente cercare una qualunque trasmissione di basso livello che invita il prof. Piergiorgio Odifreddi insieme a preti e simpatizzanti del clero).

Ma quanto ci piace il “virtue signalling” (o “farisaismo”), il mostrare di continuo che noi siamo buoni e facciamo del bene, foss’anche solo il cliccare il cuoricino o la faccina triste sotto un post lacrimestrappa (cit.), perché “noi non siamo come quei mostri razzisti, sessisti, omofobi, carnivori, inquinanti, egoisti, insensibili, indifferenti…”.
Consiglio la lettura di “Elephant in the Brain” per provare a capire i “veri motivi” che stanno dietro questo innato bisogno di sentirci e mostrarci buoni (ragioni molto spesso invisibili anche a chi si comporta in un certo modo), come consiglierei anche la visione critica della serie “The good place” o di tutte quelle scene di film esasperatamente americani come “Edward mani di forbice”, in cui si mostra proprio l’ipocrisia buonista di stampo religioso tipica di una certa parte del mondo occidentale.

Tra l’altro, in “The good place” proprio all’inizio (quindi tranquilli, niente spoiler) c’è la fallacia logica del calcolo del punteggio dell’impatto delle proprie “buone azioni”, caricaturizzata anche nei Simpsons e Futurama. E comunque un sistema perfetto come quello che dice di voler creare Michael in realtà è proprio il contrario di fragile: dovrebbe essere robusto o, ancora meglio, antifragile (quindi le azioni potenzialmente “disruptive” dovrebbero portare miglioramenti nel sistema).

E sì, potrebbe non piacerci, ma sul fare del bene al prossimo (sulle “buone azioni”, come direbbe uno scout), il biologo evoluzionista Robert Trivers ha condotto diversi studi, giungendo alla conclusione che siamo animati da altruismo reciproco verso i nostri simili perché mossi da un innato meccanismo utile alla sopravvivenza e alla diffusione dei geni, di conseguenza, alla conservazione stessa della specie, nè più nè meno di altri animali. In maniera meno evidente/diretta, anche nei casi in cui si ricorre all’estremo sacrificio per salvare un nostro simile, si può comunque supporre che il tornaconto possa essere di altro tipo, ad esempio l’approvazione sociale e la correlata successiva gratificazione – oltre all’idea di lasciare alla propria discendenza, quindi sempre ai propri geni, un mondo migliore (siamo comuque sempre solo un vettore provvisorio dei nostri geni, come ampiamente divulgato da Richard Dawkins).

Sin dall’epoca delle prime tribù, ci son sempre stati dei raggrupamenti, diciamo dei “cluster” spesso definiti per prossimità ed ereditarietà: facevi parte della tribù in cui nascevi, un po’ come è sempre stato anche per le religioni (decisamente raro che nasca un cattolico in una famiglia buddhista… strano, vero?) o, per i più laici, per le tifoserie locali dello sport nazional-popolare. E le tribù spesso davano la caccia all’altro esterno (dell’altra tribù) e anche al diverso interno nel proprio gruppo (nei diversi modi, dall’abbandonare bambini gracili e deformi all’ostracizzare chi non si comportava secondo le proprie regole, condannandolo a morte certa per isolamento, morendo sbranato da animali selvatici o di stenti, lontano dai suoi simili). Diverse storie e sistemi anche complessi (la religione il più noto) sono stati inventati per creare e mantenere la figura dell’antieroe, del cattivo da combattere. Oltre a tenere lontano l’altro, si ottiene, come effetto ulteriore, quello di sentirsi dalla parte dei buoni, facendo gruppo contro un nemico comune.
Non sono passati tantissimi anni da quando Sting sentì il bisogno di cantare queste parole nel brano “Russians“:
“There is no monopoly on common sense
On either side of the political fence
We share the same biology,
regardless of ideology
Era il periodo della guerra fredda e, ovviamente, ciascuno degli appartenenti ai due blocchi si sentiva “il buono” della situazione, pronto a difendere la propria nazione dall’altro, dal cattivo (da dipingere come ratto, maiale, mangiabambini, mostro e così via).

Come scrisse Alan Watts:
[…]more diabolical things are done in the name of righteousness. And be assured that everybody of whatever nationality or political frame of mind or religion all ways goes to was with a sense of complete rightness. The other side is that devil.
In nome delle divinità si sono combattute numerose guerre (finché qualche revisionista non dirà che le crociate consistevano nel predicare pacificamente). E quando non ci sono nemici da convertire o combattere… ce li creiamo. Alcune persone proprio non capiscono che la linea di demarcazione che separa il buono dal cattivo è soggettiva; per dirla come Jordan Peterson:
“you can’t divide the  world neatly into perpetrators and victims  and then assume that you’re only in the victim  class and then assume that gives you access to  certain forms of redress it gets dangerous  very rapidly if you do that sort of thing
Lo stesso psicologo ha inoltre recentemente aggiunto in merito:
It is much more psychologically appropriate to assume that you are the enemy (that it is your weaknesses and insufficiencies that are damaging the world) than to assume saint-like goodness on the part of you and your party.

Tornando alla purezza: vogliamo credere di poter essere “puri come i bambini”.
Ecco, appunto: i bambini. Spesso questo impllente bisogno di pulizia della società scaturisce anche dall’ossessivo “qualcuno pensi ai bambini!”; sia mai guardando Dumbo, Peter Pan. Aristogatti, Lilly e il vagabondo e il Libro della Giungla ci diventano dei mostri razzisti.
Povere creature innocenti, “anime pure”. Siamo sicuri?

La “purezza” dei bambini

Esattamente come molti animali allontanano i diversi/malati dal branco (e alcuni, percependo di stare male, si allontano autonomamente per andare a morire da soli), lo stesso avverrebbe istintivamente per noi che ci riteniamo più evoluti, visto che siamo programmati per fare lo stesso. Abbandonando per un attimo la retorica buonista, occorre fare i conti con la realtà:
gli anziani vengono percepiti come “meno umani” dai più giovani (già, il “boomer” non è un loro simile) e, in generale, la deumanizzazione è evidente nell’attività cerebrale già dai 5 anni di età.
Difficile parlare di “colpa di ciò che inculca la società” quando si tratta di menti giovanissime, alle quali di sicuro i genitori o gli educatori non hanno detto di pensare a donne alcolizzate come a degli animali a letto, nè tantomeno hanno sorbito gli effetti di quella propaganda (se sono in occidente) che porta a pensare che arabi e musulmani siano meno evoluti della media della popolazione globale. Non è assolutamente mia intenzione legittimare comportamenti violenti dei più piccoli, dal bullismo (quello “serio”, perché il semplice “prendersi in giro” e farsi piccoli dispetti, in misura innocua, fa parte del giocare nel normale processo della crescita con gli altri in società) agli omici condotti da baby gang. Quello che però sembra non esser chiaro alla maggior parte della popolazione è che è la società (se sana) che permette ai ragazzini di imparare a comportarsi bene e limitare la violenza, esattamente il contrario dell’idea generalizzata che “il bambino nasce buono e diventa cattivo per colpa dei grandi”.

Non solo i bambini riconoscono come “meno umano” il diverso, ma addirittura già a 4 anni mostrano Schadenfreude (quel sentimento traducibile dal Tedesco come “piacere provocato dal danno altrui”). In uno studio, ad alcuni bambini veniva mostrata una ragazza che si arrampicava su un albero per raccogliere le prugne per darle al fratellino (e, alternativamente, per lanciarle al fratellino), in entrambi i casi cadendo dall’albero e facendosi male. I soggetti di tutte le età hanno dato prove di schadenfreude, suggerendo che la loro risposta emotiva all’angoscia di un’altra persona è stata influenzata dai loro “giudizi morali” su quella persona, quasi bramando vendetta per chi cadeva mentre cercava di attuare un piano perfido.
Del resto, anche i bambini di quattro anni credono nel Karma, come evidenziato in uno studio in cui ricercatori hanno concluso che una fede nel karma può riflettere un pregiudizio teleologico ampio che emerge molto precocemente per interpretare gli eventi della vita in termini di azione e scopo.

Karma

Qualcuno avrà sentito il detto “fai del bene e scordati, fai del male e pentiti”, come per dire che in caso di beneficienza non dobbiamo tenere a mente quando/quanto/a chi abbiamo fatto dei favori, che dovremmo fare del bene senza nemmeno pensarci, come farebbe un bambino che ama tutti indistintamente. In realtà, i bambini tengono traccia (e non poco) del loro volontariato: gli psicologi dello sviluppo hanno dimostrato che i bambini in età prescolare hanno un forte senso di reciprocità; ad esempio, condividono più giocattoli con altri bambini che in precedenza hanno condiviso di più con loro, ma addirittura hanno dimostrato che già all’età di tre anni i bambini riconoscono chi è “in debito” con loro!
Da tenere a mente, quando un bambino fa un regalo o una gentilezza, che istintivamente ragionano in termini di do ut des e che, se c’è da chiedere qualcosa, andranno a batter cassa da qualcuno a cui hanno dato qualcosa.

Sì, forse i bambini sono esseri demoniaci, il che spiega quello che fanno loro i preti – mi riferisco al battesimo per epurarli dal “peccato originale”, se avete pensato qualcos’altro siete delle brutte persone che ascoltano troppa stand-up comedy!

Ancora sul cancellare

Che ci piaccia o no, siamo il prodotto dei nostri geni e della nostra storia, non è possibile ignorare il passato, nè è augurabile farlo: è proprio rimarcando gli errori della propria storia che è possibile cercare di limitarli. Anche perché la storia è lontana dai fatti, la storia è nella narrazione, come ricordava Carmelo Bene citando Antonio Pizzuto. Solo guardando a come sia stato possibile mettere in piedi macchine di distruzione umana come quelle che hanno portato ai campi di concentramento (che siano stati sotto bandiere rosse o nere, il colore del regime non rende più o meno morti degli individui) è possibile fornire una chiave di lettura per comprendere fenomeni contemporanei (sempre che l’obiettivo della scuola sia quello di educare ed insegnare a ragionare, piuttosto che riempire la testa di vuote nozioni da imparare a memoria).
Vale anche per le storie che si raccontano ai bambini: il ruolo di alcuni passaggi “atroci” in fiabe e favole è anche quello di raccontare ai più piccoli che esistono anche la morte e la sofferenza e che esistono responsabilità (si spera) per brutte azioni, non è di certo cambiando la sorte del lupo di Cappuccetto Rosso che si sconfiggono cattive azioni, punizioni e morte. Va sottolineata l’importanza dei racconti per bambini come strumento per veicolare, sin dalla tenera età, concetti importanti come quello della morte, nelle sue diverse sfumature (come affrontato in diversi studi, con approcci linguistici e terapeutici); già uno studio del 2005 evidenziò come la Disney tendesse a nascondere il concetto di morte, dando un’idea della direzione intrapresa, eclissando avvenimenti che fanno comunque parte della vita vera e di cui è importante parlare durante un’età in cui nella mente si forma una mappa del proprio territorio, del mondo reale. Altrimenti, tiriamo su dei ragazzini che non sanno come rapportarsi alla violenza che, ci piaccia o meno, esiste in natura, come naturale è la scomparsa di una persona cara. Per spunti distopici in merito, consiglio la visione dell’episodio Arkangel di Black Mirror che inizia col sogno inconfessato di molti genitori, di impiantare un filtro contro “le cose brutte del mondo”, una specie di parental control che però, oltre che sugli schermi dei dispositivi, agisca sugli schermi delle loro menti.

Ci stiamo volutamente creando un sistema fragile, anziché cercare di conoscere meglio e “sfruttare” la nostra parte cattiva che non può essere repressa (Freud ci ha creato la sua psicoanalisi, sulle repressioni degli istinti e sulla psicopatologia delle masse). I fenomeni sociologici che portano a rivolte, violenza negli stadi, stupri di gruppo ed altre nefandezze collettive andrebbero studiati meglio come meccanismi, accettando che alcune dinamiche sono proprie dell’essere umano, anziché derubricare gli episodi a casi sporadici perpetrati ad opera di qualche bruto in un momento di follia. Però i media devono sbattere il mostro in prima pagina dando connotazione politica secondo il volere del proprio padrone, mentre la massa morbosa di spettatori continua a cercare dettagli scabrosi che, come nei cartoni animati e come scritto prima, dipinga il mostro come 100% cattivo e quindi ben distante da noi, che certe cose non le faremmo nemmeno in sogno. Così possiamo spiegarci la realtà senza sfumature, come faremmo con una persona con gravi difficoltà di comprensione.

E non basta censurare azioni criminali: per fare un esempio, nel documentario “Red Pill” (realizzato da una “femminista pentita”) si vedono scene agghiaccianti per un popolo che professa la libertà di opinione (come manifestazioni di odio immotivato contro padri separati che pacatamente chiedono solo di poter avere il diritto di vedere i propri figli) e non c’è molto da stupirsi che la proiezione del film sia stata ostacolata e rimandata in diverse parti del mondo perché ormai raccontare una verità non conforme al buonismo politicamente corretto viene visto come “propaganda razzista/misogina/altro”.
In un futuro non molto lontano, tutto potrebbe esser passato al setaccio da parte di un “Ministero della verità” distribuito, un tribunale decentralizzato con una giuria popolare che televota tramite commenti e ricondivisioni. E allora giù di politically correct, di asterischi, di schwa, ma attenzione a non dire/scrivere troppo: non dire più nulla perché tutti sono sensibili e possono offendersi, tutti sono potenziali vittime, in una spirale dove si arriverà ad autocensurarsi preventivamente.

Uno dei problemi è che chi si crede “superiore” (come i SJW che sono sicuri di avere la verità in tasca e soluzioni per un mondo migliore) è meno incline a studiare e capire di più.
Molto più facile sbraitare nella pubblica piazza (reale o virtuale) anziché cercare di analizzare a fondo i problemi e studiare sul serio delle soluzioni fattibili a questioni complesse. Per alcuni, è meglio urlare “vogliamo la pace” e “qualcuno faccia qualcosa per ridurre l’inquinamento” piuttosto che mettersi a studiare dei metodi per ottenere i risultati sperati, anche perché riflettere costa troppa fatica: oltre una decina di studi hanno dimostato che gli studenti preferiscono somministrarsi delle scosse elettriche piuttosto che pensare. Ancora più inquietante, la gente si autoflagella piuttosto che stare ferma ad annoiarsi.
Il che dimostra che il (farsi/fare) male sia dovuto alla difficoltà di starsene tranquilli, come suggeriva Blaise Pascal:
Tutti i problemi dell’uomo derivano dalla sua incapacità di sedersi tranquillo in una stanza da solo“.

Vogliamo imparare ad essere più buoni? Impariamo a stare tranquilli, praticando ad esempio meditazione mindfulness.

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