Da questo mese, provo a condividere quello che già faccio offline da un po’ di tempo: un post che è un riassuntazzo delle risorse consumate nel mese, anche se in realtà quasi tutte, nel mio “second brain” (un “vault” che mantengo gelosamente privato), hanno poi una nota separata, sia per mantenere fede al modello Zettelkasten (benchè meno “atomico”), sia perché altrimenti il log del mese diverrebbe un lungo file ingestibile, mentre così resta una specie di serie di elenchi ordinati. Probabilmente, di alcuni dei contenuti più lunghi (come i libri) ci scriverò degli articoli, come fatto in passato, ma non assicuro nulla.
Son stato ispirato dal format “Monthly Learning Journal” del buon Mr. RIP, ai tempi in cui bloggava copiosamente – e tra l’altro anche lui comparirà qui sotto, tra i contenuti fruiti. Ovviamente nella lista inserisco soltanto qualcosa “di nuovo”, nel senso di materiale che non avevo mai visto prima, o almeno che non avevo mai terminato (può anche succedere che ad esempio conoscevo di nome un’opera o visto una clip di un film, ma poi ad esempio mi son deciso a completarlo). Più o meno come nel file personale, le risorse viste/lette/ascoltate/esperite son divise in categorie, che vado immediatamente a presentare.
Libri
“Slow productivity” di Cal Newport, gestione/sviluppo personale, 2024
Dell’autore, professore di informatica alla Georgetown University, oltre a seguire il podcast, avevo già letto “Deep work”, “So good They can’t ignore you” e “Digital minimalism”. Onestamente non nutrivo molte aspettative, sia perché del professore ascolto e leggo da un bel po’, sia perché la tematica di produttività tende a diventare presto asintotica: dopo aver imparato ed applicato i concetti alla base di pianificazione, gestione del tempo, concentrazione e così via, tutto il resto tende a diventare un epsilon di conoscenza guadagnata a fronte di tanto tempo speso nel leggere frasi che diventano sempre più ridondanti, difficile trovare qualcosa che faccia esclamare “wow!” come può avvenire invece quando ci si approccia inizialmente a questi argomenti – ricordo ancora quando ho letto GTD (Getting Things Done) di David Allen, una ventina d’anni fa, mi si aprò un mondo.
Il libro in sè, se si tralasciano aneddoti ed esempi a cui ormai i libri americani ci hanno abituato, propone in sostanza di cercare di sfuggire ad una certa pressante cultura di produttività estrema a tutti i costi, basata spesso sulla quantità più che sulla qualità (ricordando quindi il solito concetto: molto occupato non implica necessariamente molto produttivo, come visto tante volte, anche con l’arcinota matrice di Eisenhower). Il problema alla base è che spesso, soprattutto i “lavoratori della conoscenza” (il cui numero continua a crescere), non hanno neppure un’idea chiara di cosa sia la produttività e di come misurare il loro lavoro, che non sia “ore trascorse in ufficio” o davanti ad un PC, tanto che molti si buttano sulla pseudo-produttività, nel tentativo di mostrare a se stessi e agli altri di aver fatto tanto (eviterò di scrivere quel che ho visto conteggiare per giustificare la presenza di interi dipartimenti, altro che Goodhart’s Law). Riassunto in maniera estrema, la filosofia che Cal Newport propone per organizzare il “lavoro della conoscenza” in modo sostenibile nel tempo è:
- Fai meno cose. Riduci gli impegni di tipo shallow work ma anche proprio in generale il numero di progetti ed attività, concentrandoti su quelli davvero importanti per te.
- Lavora a un ritmo naturale: rispetta i tuoi ritmi; se necessario, dilata le scadenze per evitare la fretta e garantire un lavoro di qualità (il che ricorda anche un “trend” che andava un po’ di tempo fa, quello del disegnare lo stesso soggetto con un diverso tempo limite, come condividerò qui sotto).
- Sviluppa un’ossessione per la qualità: meno e meglio, per produrre risultati duraturi e significativi, ma allo stesso tempo cercando di evitare il perfezionismo estremo; in un’epoca dove vince la velocità del tutto e subito e in pochi si curano davvero di produrre qualità, essere tra i pochi “so good they can’t ignore you” può fare la differenza.
Il libro espande un po’ questi concetti, anche se un po’ troppo diluiti per i miei gusti. Lettura comunque piacevole come prosecuzione del viaggio intrapreso con i precedenti libri, ma speravo in qualcosina di più.
“L’Adversaire” di Emmanuel Carrère, bio/drama/crime, 2000
Non sono assolutamente un amante del genere “romanzo-verità”, trovo che i fatti di cronaca nera debbano riguardare esclusivamente familiari e conoscenti delle vittime e al limite di chi perpetra il fatto, preferisco non esprimermi su tutte le persone coinvolte nel circo mediatico e nella narrazione morbosa del genere “crime”, soprattutto quando ad occuparsene è gente improvvisata che, quando va bene, può al massimo vantare l’iscrizione all’albo dei giornalisti o esaltare lauree conseguite presso facoltà non tecnico-scientifiche (per favore, non chiamiamo psicologia e simili “scienza”). In questo caso, ho fatto un’eccezione e mi son fidato del titolo consigliato da uno youtuber/filosofo, Rick DuFer, che l’aveva citato mentre parlava appunto di un polverone sollevato da un recente caso di cronaca che ha occupato le prime pagine per tanto tempo. Il libro parla della tragica storia di Jean-Claude Romand, un francese che ha vissuto per ben diciotto anni una vita basata su menzogne. Fingendo di essere un medico ricercatore affermato, Romand è riuscito ad ingannare la sua famiglia e i suoi amici, mentre in realtà trascorreva le giornate senza uno scopo, vagando senza meta, quando non impegnato in attività per la donna che avrebbe voluto come amante. L’autore, che ha seguito gli avvenimenti in seguito alla cattura di Romand per l’omicidio di moglie, figli e genitori, ha anche comunicato con l’omicida e pubblicato le lettere scambiate, alla fine del libro. Lo stile di scrittura riesce a far seguire per bene le vicende senza caricarle nè di empatia nè di odio nei confronti del protagonista. Un libro comunque definibile inquietante e coinvolgente, che mette in discussione la percezione della realtà e della verità, capace di insinuare tra l’altro il dubbio su chi pensiamo di conoscere, sia per eventuali aspetti della propria vita che nasconde, sia sul fatto che anche un nostro caro o un nostro conoscente possa potenzialmente essere capace di commettere delitti che non potremmo mai neppure immaginare.
Opera consigliata anche a chi, come me, non è avvezzo a questa tipologia di letteratura.
“Arcipelago Gulag” di Aleksandr Solženicyn, saggio storico e autobiografico, 1973
Aleksandr Isaevič Solženicyn è stato, tra le tante cose, uno scrittore e filosofo russo, vincitore del premio Nobel per la letteratura. Personaggio abbastanza controverso, soprattutto perché le sue critiche non hanno risparmiato nessuno dei due blocchi (russo e occidentale), è divenuto famoso appunto per i tre volumi di “Arcipelago Gulag”, in cui descrive il sistema GULAG (Glavnoe Upravlenie LAGerej i mest zaključenija, Direzione generale dei campi e dei luoghi di detenzione), l’istituzione penitenziaria in cui i prigionieri venivano “rieducati” tramite il lavoro. Lui stesso passò attraverso tutto l’iter dei processi farsa anche in quei lager e, per aver pubblicato quest’opera a dir poco “scomoda” e “sconveniente”, fu arrestato dal KGB (la polizia segreta dell’unione sovietica) ed in seguito costretto all’esilio, da cui ritornò solo qualche anno dopo la caduta dell’URSS e dopo la sua delusione sul suolo occidentale. Il libro (o meglio, i 3 volumi) è una testimonianza che definirei fondamentale ed imprescindibile, mi chiedo perché io l’abbia letto soltanto ora, nonostante in età scolastica (e non) io abbia letto diversi libri sull’organizzazione politica e sui lager “dell’altra parte” (quelli occidentali, i campi di lavoro e sterminio gestiti dai nazisti). Sul libro ci sarebbe tanto da scrivere, forse in futuro ci scriverò un post completamente dedicato, ma in breve è un’opera che scorre “a tratti”: nonostante lo stile ironico dell’autore e la descrizione equilibrata degli arresti, dei processi, dei vari membri delle istituzioni, delle celle, dei sistemi di trasporto tra le stesse e tanto altro, l’inchiesta diventa spesso anche troppo puntigliosa, menzionando alcuni avvenimenti in un eccesso di dettagli, che forse si sarebbero potuto lasciare come annesso, separato dal corpo principale. A parte questa profusione di nomi, resta un documento estremamente importante per chiunque voglia completare la lacunosa conoscenza storica del XX secolo, sospettosamente carente sul versante rosso (leggendo, si capisce anche il diverso “stile” comunista e il successivo silenzio, che spiega in buona parte il perché in alcune zone del mondo sia generalmente accettato, se non ostentato, il sinistro svolazzare di bandiere rosse con stella, falce e martello, mentre ogni rappresentazione di una svastica viene giustamente punita). Importante anche per chiunque abbia a cuore i diritti umani, oltre che temi come la libertà, la verità, la moralità, l’etica e tanti altri aspetti che vengono discussi dall’autore. Di certo, insieme alla lettura dei fondamentali sulla “controparte” (i numerosi libri scritti sull’ascesa di Hitler, sull’olocausto e tutto ciò che si spera venga ancora studiato a scuola) aiuta a comprendere meglio i regimi autoritari e la libertà individuale prima, durante e dopo i totalitarismi. Assolutamente consigliato.
“Jocelyn uccide ancora” di Alessandro Gori (“lo Sgargabonzi”), comico/demenziale, 2018
Dopo/durante la lettura di un libro così serio e importante come il precedente, ho letto quest’altro che, a dispetto del titolo, non riguarda ancora omicidi (son bastati i parenti fatti fuori da Romand e i milioni di morti dell’Unione Sovietica). Non ho in verità molto da dire su questo almanacco di storie brevi scritte nello stile provocatorio e surreale dello Sgargabonzi. Per i riferimenti citati, il libro è godibile in particolar modo da parte di chi ha vissuto gli anni ’80-’90, un po’ come avviene con “Una pezza di Lundini”, che faranno rivivere frammenti di vita vissuta a casa o con gli amici a quei tempi – o, come si usa dire oggi, “ti sblocca un ricordo”. Come per altre opere demenziali, ma non “trash”, “si ride, ma si riflette pure”, tra una risata e l’altra c’è spazio per considerazioni un po’ più profonde, per osservare avvenimenti, persone ed oggetti con una prospettiva insolita (o, per dirla come in questo blog, “attraverso lenti di occhiali differenti”). Libretto non impegnativo, consigliato ad esempio per i tempi morti, magari sui mezzi pubblici se siete dei pendolari, oppure da tenere in tasca/zaino su un lettore e-book da tirar fuori durante file presso uffici, casse del supermercato, casse per il biglietto al cinema, casse acustiche, casse da morto, casse malattia, casse di risparmio, casse di sicurezza, ma non in cassa integrazione: in quel caso, suggerisco libri più lunghi che possano occuparvi per più tempo.
“Freedom from the known” di Jiddu Krishnamurti, filosofia e sviluppo personale,1969
Son venuto a conoscenza di questo libro tramite lo youtuber Wesa. Titolo autoesplicativo: esplora la necessità di liberarsi dalle limitazioni imposte da quello che conosciamo e che diamo per scontato, tramite la nostra educazione/istruzione ed esperienze passate. Per usare termini cari ai fuffaroli della PNL: liberarsi dalle “credenze limitanti” e dai condizionamenti sociali. Vengono affrontati diversi aspetti, partendo proprio dal concetto iniziale di condizionamento e dal fatto che non è così facile “decostruire” le strutture che abbiamo accumulato e sulla cui base continuiamo a costruire, comportandoci di conseguenza. I preconcetti, infatti, influenzano il modo di pensare e di agire. A volte, la conoscenza può diventare un ostacolo ad una maggiore e più profonda comprensione dell’essenziale, della vita – da cui il solito tema del “chiudersi a riccio”, come suggerisce Duccio in “Boris”, a volte meno è meglio, per collegarsi al minimalismo caro a Cal Newport scritto all’inizio di questo post. Il libro è chiaramente espressione della visione orientale, con la consapevolezza, il cambiamento interiore e tanto altro che sarebbe riduttivo ed offensivo cercare di riassumere brutalmente qui. A proposito: il libro, a differenza dello stile tipico americano riscontrato in “Slow producitvity”, è invece abbastanza “denso”, al punto che si fa quasi fatica a capire cosa non evidenziare: si nota una cura nella scelta ponderata di parole, con pochissimi fronzoli; anche gli esempi sono ben circostanziati, calzanti e limitati all’essenziale. Per quanto godibile e totalmente comprensibile anche da parte di chi non ha mai letto nulla al di fuori dell’occidente, si può apprezzare ancora meglio se si ha una base di conoscenza della filosofia orientale, che permette di capire alcune sfumature più a fondo. Grazie Wesa per questa perla consigliata. Decisamente meritevole di una lettura consapevole.
Corsi
“Depressive and bipolar disorders” dell’American Psychological Association
Il titolo è abbastanza esplicito. Il corso è il secondo di una “specializzazione” (3 corsi) dell’APA, “Psychology of Anxiety, Mood, Substance Use, and Addictive Behaviors”, fruibile tramite la nota piattaforma di MOOC “Coursera” (di cui ho parlato più volte, ad esempio qui: MOOC: the cheap (or even free!) yet powerful and stimulating way to learn).
Consdierato che le stime parlano di oltre 400 milioni di persone in tutto il mondo affette da disturbi depressivi e bipolari, senza considerare che spesso questi disturbi non vengono diagnosticati (e trattati) adeguatamente. Vengono affrontati prima i tratti comuni alle due classi di disturbi, per poi andare nello specifico, nei vari “sotto-tipi”. Interessanti, oltre ai criteri diagnostici, i dati demografici e soprattutto i fattori che contribuiscono allo sviluppo di questi disturbi, ad esempio per la parte biologica e psicologica, concludendo con i trattamenti per ciascun disturbo. A dir il vero, avendo completato in passato diversi corsi di neuroscienze, mi sarei aspettato qualche elemento in più, a completare quanto già visto, ma fornisce comunque un quadro chiaro, che è possibile poi approfondire autonomamente per i dettagli di proprio interesse. Mi sarebbe anche piaciuto vedere più studi e dettagli sulla parte di prevenzione/contenimento dello sviluppo, ma tutto sommato un corso di livello “accettabile”, anche se lo avrei strutturato in maniera leggermente diversa, rispetto al modo in cui le informazioni son state organizzate/presentate. Di certo non lo inserisco tra i “top 100” corsi, ma comunque non mi sento di dire che sia stato tempo buttato.
Film e serie
Qui ho forse “sprecato” un po’ troppo tempo, il prossimo mese limiterò di sicuro la lista. “[S]” sta per serie, il resto sono film.
“Squid Game” [S], stagione 2, Dystopia/Thriller, South Korea, 2024
In un certo senso, esattamente quello che prevedevo a livello di intrattenimento: non ha nè deluso nè superato le mie aspettative. Non ero convintissimo di vederlo, ma non mi sono pentito. La prima stagione è stata per molti una “rivelazione”, anche se l’avevo descritto agli amici come “Un Mai Dire Banzai, senza l’ironia della Gialappa, in una versione serie seriosa che se la crede”, un “Takeshi’s Castle” senza i commenti di Lillo e Greg. Continua la storia, allargando però leggermente la visione intorno all’organizzazione del gioco, ma solo quel tanto che basta per tenersi margine per successive stagioni, tanto che la terza è già programmata presto per la trasmissione. Nè infamia, nè lode.
“Severance” [S], stagione 2 (in corso), Sci-Fi/Thriller, USA, 2025
Anche in questo caso, non nutro grandissime aspettative. Per ora, continua con lo stile della prima stagione che, tolta la parte iniziale con l’idea interessante, si sviluppa per me in modo troppo lento e piatto, più o meno in linea con quel che penso della casa produttrice di questa serie. Magari più avanti vengono introdotti elementi di novità, ma dubito di vedere qualcosa di totalmente inaspettato o che riesca a tirar fuori pensieri più profondi rispetto all’idea iniziale su cui è costruita quasi tutta la narrazione. Come per la maggior parte delle serie e per molti film, sembra comunque di notare un appiattimento del profilo dei personaggi, ad un livello adatto forse a bambini delle elementari; non mi aspetto descrizioni dallo spessore psicologico presente in grandi classici d’autore, ma così stilizzati è forse un po’ troppo.
“Fall Out” [S], Post-apocalyptic Drama, USA, 2024
Questa serie mi è stata suggerita da un amico, che mi ha detto di poterla apprezzare anche senza aver giocato all’omonimo viodegioco da cui è tratta. Probabilmente mi saranno sfuggiti alcuni riferimenti, ma nel complesso la trama è così elementare che in effetti non credo sia necessaria alcuna “preparazione” prima di vederla. Classica americanata, con più scenografia, spari ed effetti speciali che non storia dietro. Occorre una notevole sospensione dell’incredulità per evitare di porsi domande elementari come: OK la tuta, ma niente maschera per girare in posti contaminati? Come ho scritto qualche riga fa, ormai i personaggi son tutte caricature stereotipiche, con movimenti e dialoghi forse adatti ad un pubblico di adolescenti, perché probabilmente in effetti è questo il target previsto per questa serie. Qualche brevissimo accenno a possibili tematiche etiche e sociologiche, ma si sarebbe potuto fare molto di più, ad esempio parlando meglio di malthusianesimo e, in contrapposizione, dell’Universo 25 di Calhoun. Anche per questa serie, comunque, ero ben consapevole di non potermi aspettare troppo, quindi anche in tal caso: buon passatempo, se proprio non avete di meglio in lista.
“Ratataplan”, Maurizio Nichetti, Comedy, Italy, 1979
Anche se una linea narrativa è comunque presente, la forza di questo film, che sembra un po’ indie, un po’ sperimentale, un po’ onirico, sono le “gag”, scene più o meno lunghe di slapstick (il genere per cui erano famosi Charlie Chaplin e il duo Stanlio e Ollio – e cito loro perché già con Mr Bean c’è troppa distanza). Sicuramente non un capolavoro imprescindibile, ma cionondimeno una simpatica pellicola che va inquadrata in quell’epoca, comprese le tempistiche e le tinte appartenenti ad un periodo “più calmo”. Classico film di quelli che potrebbero esser trasmessi durante un pigro pomeriggio di giorno festivo, dopo pranzo, ma attenti a chiedere un bicchiere d’acqua (no spoiler).
Reality, Matteo Garrone, Drama, Italy, 2012
Alcuni temi, presi singolarmente, son stati già presi in considerazione diverse volte, ma quando certe dinamiche iniziano a combinarsi in maniera “innovativa”, a causa di nuovi fenomeni di costume, il risultato può essere davvero interessante. Il sogno di fama, la pervasività della televisione, la paranoia di essere spiati, l’ossessione di vincere qualcosa, la percezione distorta della realtà, tutte insieme, costituiscono una miscela esplosiva che, insieme alla capacità recitativa degli attori degna di una specie di neorealismo, porta questo film ad essere un possibilissimo spaccato tragicomico della vita di alcuni. Ovviamente qui la storia del pescivendolo napoletano che, dopo un provino per un reality show (da cui il titolo), resta in attesa di una telefonata da parte della produzione è resa volutamente grottesca, ma è abbastanza plausibile che storie simili, in piccolo, siano accadute e continuino ad accadere in alcuni contesti sociali. L’ho trovato coinvolgente nonostante io non guardi la televisione da oltre due decenni, immagino quanto possa essere percepito come più realistico ed inquietante da chi la TV la guarda diverse ore al giorno. Film consigliato anche a scopo eventualmente educativo per figli giovani che pensano di puntare tutto su apparizioni televisive o di ricevere “la chiamata” dal mondo dello spettacolo.
“Il ladrone”, Pasquale Festa Campanile, Comedy, Italy, 1980
In uno scenario storico/biblico, Enrico Montesano recita, col suo stile tra il sardonico e il bonaccione che cerca d’arrangiarsi, la parte appunto di un ladrone, un truffatore galileo che vive di piccoli imbrogli, compreso quello di trasformare l’acqua in vino. Nei suoi viaggi, spesso per scappare da cittadini truffati e soldati che vogliono imprigionarlo, s’imbatte proprio in Gesù che, come da scritture, fa tramutare l’acqua in vino ma, a differenza sua, senza “trucchi” visibili. Considerato che è stato girato durante l’epoca delle varie commedie all’italiana, non stupisce vedere qualche nudità, come ad esempio di Edwige Fenech, ma senza le espressioni di Alvaro Vitali (non presente nel film). Può essere interessante soprattutto per chi magari non ha mai visto film usciti in questo periodo.
“Vacanze di Natale ’91”, Enrico Oldoini, Comedy, Italy, 1991
Per chi ha visto solo i cinepanettoni più recenti, questo film può rivelare delle inaspettate sorprese: anche se compare un Nino Frassica che si sarebbe potuto sfruttare/esprimere di più, l’impatto più forte è forse nel vedere un impeccabile Alberto Sordi, nei panni di un cameriere, che poi alla fine del film (non anticipo il finale, ci mancherebbe). Si nota già dall’epoca un umorismo che va verso il becero pesante, si vedono proprio i semi di quello che sarebbe diventato per almeno 20 anni buoni tutto il filone della commedia italiana di pessimo livello, pochissime “perline” di comicità e di pensiero, ma in un mare di fango. Da vedere solo per il valore storico, come per identificare il momento in cui è iniziato il declino verso un certo tipo di comicità.
“Vacanze di Natale ’95”, Neri Parenti, Comedy, Italy, 1995
Come (il film di) prima, più di prima. Durante tutto il film si respira proprio un’aria anni ’90, compresa l’ammirazione degli States. Il tema della ragazzina 14enne (Cristiana Capotondi) che si innamora del belloccio del cinema (Dylan di Beverly Hills, nel film è davvero lo stesso attore che interpreta se stesso) facendo preoccupare un angosciato padre (Massimo Boldi) è reso realistico dall’uso del linguaggio e delle espressioni dell’epoca di “Non è la RAI”, partendo dai giornalini “Cioè”. Non essendoci abbastanza battute degne di nota, c’è un uso molto frequente di nudità, ma soprattutto di tutto quello che oggi sarebbe difficilmente ricevibile, come “body-shaming” ripetuti, caricature sui “froci” e così via. Come scritto per il ’91, anche questo può al limite avere una valenza storica dei costumi dell’epoca, ad esempio per chi è nato dopo la caduta delle torri gemelle e non immagina com’era un mondo senza smartphone e social network, anche se di film che ritraggono gli anni ’90 ce ne sono sicuramente di migliori.
“La mia cena con Andrè”, Louis Malle, Drama/Comedy, USA, 1981
Son venuto a conoscenza di questo film ascoltando Enrico Montesano (sì, ultimamente può aver preso delle derive un po’ controcorrente nei suoi video). Come primo impatto, può ricordare “The big Kahuna”: entrambi girati in un “set minimale” (uno spazio ristretto, che di certo aiuta nel budget per la scenografia) ed entrambi “tutta sostanza”, nel senso di importanza principale nei dialoghi, ma le tematiche affrontate, così come il contesto, sono piuttosto diverse. Un po’ come vedere/ascoltare un podcast, ma con dialoghi ben pensati e scritturati. Consigliato per gli amanti del genere d’autore / sperimentale e non solo.
“Leviathan”, Andrey Zvjagincev, Drama, Russia, 2014
Dramma che dipinge scene della Russia del nord, in cui un padre di famiglia si trova a lottare contro un sistema oppressivo e corrotto. A differenza del sistema statale descritto in Arcipelago Gulag, qui l’ingiustizia è perpetrata da autorità locali comandante dal sindaco e dal locale rappresentante della chiesa ortodossa. Interessante vedere come viene narrata una storia di abuso di potere e di drammi familiari da parte di una nazione non occidentale, vedere che cambiano le ambientazioni, ma alcune dinamiche son fondamentalmente simili a quelle che ci aspetteremmo in condizioni analoghe anche in nazioni mediterranee, come ad esempio quando l’avvocato cerca di far liberare l’assistito (non anticipo quando nè perchè) e si vede rimbalzare da muri di gomma con le solite motivazioni del tipo “mi dispiace, ma in quell’ufficio oggi non c’è nessuno, uno è in malattia e l’altro è fuori e non so dirle per quanto”, i consigli di tornare ad occuparsi di altre faccende, le preoccupazioni in periodo di elezioni, l’importanza del potere religioso, il sogno di trasferirsi da un paesino desolato alla grande metropoli ma allo stesso tempo lo scoraggiamento dovuto a prezzi elevati e carenza di competenze e tanti altri temi che forse Nietzsche definirebbe umani, troppo umani. Il tutto, condito da scene di vita di adolescenti e adulti che tendenzialmente si accontentano di poco, ma non di poco alcool. Tralasciando i premi al Festival di Cannes e il Golden Globe come miglior film straniero, merita d’essere visto.
“Green Book”, Peter Farrelly, Bio Comedy/Drama, USA, 2018
“Tratto da una storia vera”, inizierebbe la voce narrante un trailer. Ambientato negli USA anni ’60, il film esplora le dinamiche razziali negli Stati Uniti, in particolare nel sud segregazionista, vissute dall’italo-americano Tony Vallelonga e dal pianista afro-americano Don Shirley. Come ci si può aspettare, Don non viene trattato col dovuto rispetto (accettato come virtuoso del pianoforte da esibire con gli amici facoltosi, ma non come pari essere umano), ma non mancano occasioni in cui viene fatto notare che anche l’italiano è un “mezzo-negro” (per chi non coglie tale razzismo nella “civilissima e liberissima” america, consiglio di informarsi in merito alla considerazione che avevano degli immigrati italiani e dei loro discendenti). Lo stesso italo-americano, comunque, parte con razzismo e diffidenza, per poi finire… non aggiungo altro, il film merita d’esser visto a prescindere dalla sua carica morale, anche perchè questo avvenimento realmente accaduto non viene affatto narrato nella maniera stucchevole a cui ci hanno abituato trame scialbe e recitazioni incredibilmente artificiose delle recenti serie woke. Non mancano elementi di umorismo e in generale da tutto il film traspare realismo e calore umano. Un interessante spaccato di una nazione spaccata (dalla segregazione razziale), attraverso un viaggio per i diversi luoghi degli Stati Uniti. Decisamente meritevole.
Video vari (Youtube e simili)
In verità, ne consumo tantissimi, decisamente troppi, sto riducendo nel tempo. Qui parlo solo di quelli che sono un minimo rilevanti oltre una certa soglia, per tempo speso o perchè (anche se brevi) hanno del contenuto per qualche motivo degno d’essere visto.
“Report” puntata del 12/01/2025
Ci sono puntate intere in cui gli argomenti trattati son sempre gli stessi – la “noia” in quel caso deriva dal fatto che alcune “storture del sistema” non vengono mai risolte, come anche dopo un po’ ci si stufa a vedere ancora servizi su pizza e caffè: non che non sia interessante saperne di più su cosa la maggior parte degli italiani mangia e beve, ma da una redazione capace di inchieste pungenti e dettagliate ci si aspetterebbe qualche tema più importante, anche se capisco che altrimenti tutto il programma lo reggerebbero in pochi. Questa puntata inizia parlando di Caivano e qui, onestamente, potrebbe interessare maggioramente un pubblico di quelle parti, quindi il motivo per cui ho segnato questa puntata in particolare è per i servizi sulle lobby in unione europea, nel caso specifico sul legame con lo stato di Israele. Tralsciando il doppiopesismo delle istituzioni europee rispetto ad esempio al conflitto Russia-Ucraina, può essere utile capire i meccanismi con cui vengono stipulati accordi e rilasciati fondi europei come quello di Horizon 2020, destinato anche a progetti universitari israeliani che, nel contesto in cui ero prima, avremmo forse definito quantomeno “dual use”; non che la ricerca e le aziende siano sempre state avulse da studi e applicazioni militari, qualcuno conoscerà, tra i tantissimi, il progetto Maven, del resto storicamente è il campo militare che ha “creato” e portato avanti l’ingegneria e l’innovazione, può essere importante per alcuni esserne consapevoli. Per il servizio che parla dell’area sismica su cui dovrebbe insistere il ponte (su cui insiste la politica da decenni), lascerei la parola al Dottor Cane – a proposito, anche se non l’ho inserito in lista, questo mese uscita anche l’intervista a Fabio De Luigi nel podcast Tintoria.
Andrea Alongi, volevo rimanere un tossico – One More Time
Solitamente non ascolto queste interviste lacrimestrappa (cit.) tipiche da trasmissioni del primo pomeriggio, ma in questo caso ho apprezzato come un podcast sia riuscito a nobilitare un giovane uomo che era diventato uno dei tanti meme trash di Youtube Italia. Non è soltanto la “storia di un drogato” (attualmente in cura tramite appuntamenti periodici presso un SERT) cresciuto in un contesto familiare che lo ha portato più facilmente su quella strada, ma i pensieri di un ragazzo dei tanti che tira avanti nella sua vita, col suo lavoro onesto, la sua ragazza, i suoi desideri e la contentezza (nel senso stretto di accontentarsi) di quello che ha, riconoscendo che comunque gli manca forse farsi una vacanza ogni tanto e qualche bene materiale, del resto non è un asceta, ma trovando che non sono affatto esperienze e beni necessari, quindi probabilmente molto più maturo di una buona parte di popolazione che si indebita per cercare di permettersi qualcosa di superfluo oltre le proprie possibilità.
L’UOMO che VIVE in una FATTORIA GIAPPONESE – thepillow
È da un po’ che seguo canali come questo dei The Pillow o di Bernardo Cumbo, in cerca di ispirazione su modi di vivere che definiremmo “alternativi”, in quanto a frugalità, contatto dalla natura e isolamento dalle grandi città. A volte si tratta di eremiti, a volte di gruppi di persone in una comunità, questa volta l’intervistato a casa sua era un ex fotografo britannico originario dello Yorkshire che, dopo aver vissuto per 18 anni appunto come fotografo e grafico a Singapore, tra “soldi e feste e bellissime ragazze”, non ne poteva più di sentirsi come in una “prigione aperta”, in un mondo artificiale in cui il grosso delle entrate andava in affitto e divertimenti effimeri. Rupert ha quindi deciso di andare a vivere nel sud del Giappone, dove ora vive da anni con sua moglie giapponese, in una casa tradizionale, costata intorno ai 20.000$ (e di cui apprezza anche il fatto che non siano così tanto isolate dal mondo esterno, anche se questo comporta anche avere -1°C dentro casa durante l’inverno), coltivando riso con le antiche tecniche tradizionali, che non vende e consuma quasi solo con la moglie, che è comunque impegnata in un lavoro con salario minimo. Oltre alla bellezza dei posti e l’incanto di quel modo di vivere così lontano (non solo geograficamente) dal nostro, questa visita merita d’essere ascoltata soprattutto per chi non si è mai posto troppe domande sul mondo competitivo e sulla ruota del criceto in cui molte persone si ritrovano, in gabbie lontane dalla natura e dai suoi tempi.
Siamo tutti in BURNOUT – IA, Dati e il Futuro del lavoro – Discorsi con Mr.RIP – Enkk
Stimolante conversazione tra due informatici “content creator”, uno (Enkk) impegnato nella carriera accademica ed uno (Mr RIP) che ha lavorato per diversi anni in aziende, attualmente non più impiegato come informatico. Un interessante scambio di vedute su diversi aspetti che iniziano dalla considerazione del lavoro: per uno è, per quanto possa essere interessante, comunque un mezzo per poter comprare il pane e quindi da staccare ad una certa ora per occuparsi di altri settori della propria vita, mentre per un altro è tutto “integrato”, si brucia tutto subito (da cui “burn out”) e ora passa il tempo a pensare quali aspetti anche della vita privata possano essere “contenutizzabili” (personalmente, ho una visione meno “assoluta”, penso si possano abbracciare entrambe le visioni, in diversi momenti della propria vita). Si tratta della possibile “scissione” (per citare Severance) di vita lavorativa e personale, di come vengono vissute le critiche quando si è esposti al pubblico, ma anche del rapporto segnale/rumore nell’informazione e nel trattenimento (tema trattato diverse volte in questo blog e per il quale raccomando la lettura di “Amusing ourselves to death” di Neil Postman), dell’impossibilità di tornare indietro ad uno stato di beata ignoranza per “spegnere il cervello” una volta che ci si inizia ad interrogare sul mondo e su noi stessi. Ci si chiede se forse non sia il caso di provare a tornare a ricercare risposte nella nostra memoria e di ragionare per provare ad “indovinare” quando non sappiamo qualcosa come si faceva un tempo tra amici, anzichè prendere subito in mano un dispositivo connesso ad Internet per trovare la nozione specifica; in tema di nozioni: ritorna poi il dubbio se e quanto abbia davvero ancora senso l’istruzione come la conosciamo, che prevede immagazzinare nozioni (rimando ancora all’introduzione del corso “Intelligence tools for the digital age”) anzichè fare e sbagliare, ma non aggiungo altro, ascoltate questa chiacchierata.
Nutrizione e longevità – i segreti per vivere meglio – Spazio Ongaro Podcast 1
Questo è un altro di quei casi in cui son sicuro di conoscere ormai bene le basi, ma fa sempre bene riascoltare ogni tanto i fondamentali riassunti da professionisti del settore, soprattutto perché possono esserci dei piccoli aggiornamenti o nuovo punto di vista o qualche dettaglio che può essere sfuggito. Si parla ancora della purtroppo carente letteratura scientifica a livello complessivo, su studi sperimentali e longitudinali “grossi”, per raccomandare poi l’approccio di non focalizzarsi troppo sulle differenze tra diete (mediterranea, chetogenica, paleolitica, ecc…), quanto piuttosto sui loro fattori in comune, sul pericolo di quelli che un tempo erano comportamenti evoluzionisticamente vincenti (come il prediligere cibi calorici, in un tempo in cui il cibo non era ovunque intorno a noi) e della ricerca del bliss point (riassumo brutalmente in: attenzione ai cibi come creme spalmabili che si sciolgono in bocca e a tutti quegli alimenti palatabili, ma anche al fritto salato e così via). Oltre al tipo di cibo, si ricorda l’importanza anche della sua distribuzione all’interno della giornata, oltre a considerazioni di carattere ambientale/etico e così via. Consigliato.
(Video vari) – Project Invictus
Uno dei più noti canali in tema di nutrizione ed allenamento fisico, non ha bisogno di ulteriori presentazioni. Vengono ricordati i fondamentali per l’ipertrofia (che non vuol dire necessariamente diventare dei bestioni) come il carico, il volume di lavoro, la gradualità e la densità nel tempo. Come per il cibo, anche durante l’attività fisica contro resistenza è importante la distribuzione dei carichi nel tempo, sia all’interno di una serie (allenarsi con carichi decrescenti, aumentando le ripetizioni, ad esempio: 6x20kg, 8x16kg, ecc…), sia nell’arco di settimane aumentare le ripetizioni gradualmente per poi aumentare leggermente il carico tornando al numero di ripetizioni iniziali e ripetere il ciclo, ogni volta aumentando progressivamente di poco il carico. Approccio basato su scienza/evidenza e divulgazione semplice, visione raccomandata.
Stai vivendo una TRUFFA – Educazione, Falsa Sicurezza e Comodità – DuFer
Il divulgatore di filosofia Rick DuFer (al secolo, Riccardo Dal Ferro) parla della continua ricerca di sicurezza ed avversione al rischio, che inizia da piccoli (trovo emblematico il battesimo, una sorta di assicurazione prima ancora che il bambino sia cosciente), continuando a scuola e in un’adolescenza un tempo intesa come sperimentazione per potersi costruire da soli la propria armatura, ma ora in ambienti iper-protettivi n cui la massima scelta è tra titoli di videogiochi (si parla ovviamente del caso generico medio, chiaramente ci saranno contesti in cui la realtà è ben più dura), per poi poter additare genitori e società come colpevoli perché non si è potuto scegliere chi/come diventare. Buone considerazioni e tanti spunti per approfondimenti, per giovani ma anche per meno giovani, cresciuti alla ricerca di certezze e di illusioni di sicurezza (e qui torno a consigliare il libro “Freedom from the know”, oltre a “Troppo comodi”). Raccomandato ascolto con un cervello “aperto” e disponibile a mettersi in discussione.
Prima di passare all’ultima sezione, un paio di shorts in loop, sfornati recentemente da Steve Cutts (lo stesso disegnatore del magnifico cortometraggio animato “Happiness”):
Musica
Orphaned Land, Oriental metal, Israel, 1991-.
Nella mia ricerca che si espande oltre i soliti confini europei e nord-americani, mi son imbattuto in questo gruppo metal che utilizza sonorità e strumenti tradizionali/mediorientali, apprezzabili anche, sebbene rari, alcuni cori (che non sono nè i cori delle voci bulgare, nè i classici cori che ci si aspetta da una band metal). Brani come “The Kiss of Babylon” mi sembrano come “se i Blind Guardian fossero mediorientali”, ma se dovessi scegliere un solo brano per consigliare un primo ascolto, direi: “All is one“. Suoni caratteristici rimarcati anche durante le loro esibizioni dal vivo, come ad esempio in El Meod Na’ala / In Thy Never Ending Way (The Road To Or-Shalem). Per le tematiche affrontate nei loro testi, penso sia emblematico il simbolo sulla felpa in questo fotogramma da un loro video:
Messaggi di pace e di ricerca di convivenza pacifica tra religioni in quella regione. Consigliato a chi vuole espandere il proprio solito ascolto.
Arkona, Black/Folk/Pagan metal, Russia, 2002-.
Sempre rimandendo nella macro-categoria metal, ma in uno spettro più folk/popolare, ho esplorato anche i lavori degli Arkona. Brani ballabili come “Yarilo” esprimono tutta l’energia della mitologia slava (la parte melodica qui sembra un misto tra il popolare brano tedesco “Was wollen wir trinken” nella versione dei dArtagnan e… una classica ballata greca, sperando di non aver offeso tre popolazioni in un colpo solo!).
Attenzione a non farsi ingannare dalla voce melodica all’inizio, perchè Maria Arkhipova può rivelare una voce che non ha nulla da invidiare ad esempio a Alissa White-Gluz degli Arch Enemy . Gli strumenti folk utilizzati non arrivano ad “estremizzare” come in alcuni brani degli svizzeri Eluveite, dei tedeschi Faun o dei norvegesi Korpiklaani (o anche ultimamente dei finlandesi Nightwish), ma si fanno sentire bene.
Per chi è in cerca di più epicità, consiglio l’ascolto del loro “Slavsia, Rus“.
Warlock, Heavy metal, Heavy metal, Germany, 1982-1989
Era da un po’ che non bazzicavo nel mondo musicale degli anni ’80, quindi perché non rivivere quelle atmosfere ascoltando “All we are“?
The Warlocks, Drone/Psychedelic rock, USA, 1998-.
Ero alla ricerca di effetti psichedelici (parlo di effetti musicali, non di uso di sostanze, altrimenti direi come Elio: “Psichedelia, ti fai gli acidi e poi sei in acido / Psichedelia, ti fai le basi e poi sei basico / […] / Psichedelia, tutte le teste ti porti via”), quindi ho trovato “The Warlocks” (sì, il nome è molto simile al gruppo metal anni ’80 di cui poco sopra, forse è una coincidenza o forse no). Si sentono forti influenze/omaggi ricordando i Velvet Underground, in brani come “Shake The Dope Out“, ma consiglio anche l’ascolto di “Whips Of Mercy“, magari all’inizio di un lungo viaggio.
Phoebe Rings, Dream-pop/Indie, New Zealand, 2020-.
E proseguendo il lungo viaggio, consiglio anche l’ascolto di brani di questa poco conosciuta band neozelandese, come “Lazy Universe“, “Cheshire” e “Daisy“. Buon viaggio!