Quando ho aperto questo blog, alla base c’era la volontà di condividere il pensiero critico, oltre a divulgare quel minimo di conoscenza che apprendo e rielaboro. Cosa c’entrano quindi le questioni ideologiche come quelle “di genere”? Dal punto di vista di “tifoseria”, mi interessa esattamente quanto il calcio: nulla. Sono però utili per capire le distorsioni e le prevaricazioni dell’informazione in alcuni ambiti, che spesso portano non solo ad un condizionamento mentale soprattutto di persone meno scientificamente istruite (e che non hanno tempo/voglia di approfondire dati, sempre che abbiano acquisito gli strumenti per interpretarli correttamente), ma portano anche ad effetti reali di discriminazione tra le parti.
È su questa spinta che, leggendo l’n-esimo articolo faziosamente commentato da quella che, diversi anni fa, reputavo una fonte di cronaca asettica e imparziale (ANSA), trovo utile analizzare quella che, soprattutto negli ultimi anni, è diventata una gara a chi è più vittima – del resto, come dice un filosofo divulgatore, Riccardo Dal Ferro, noto come Rick Dufer, lo spirito del nostro tempo è proprio il vittimismo:
Ogni pretesto è buono per il vittimismo
Procediamo con ordine, partendo dall’articolo in questione, pubblicato un’ora fa (al tempo in cui sto scrivendo queste parole) sulla citata ANSA: “Unicef Italia, in 5 anni 74 ragazzi morti sul lavoro” (salvato qui una copia di backup). La notizia in sè è drammatica: minori che, anziché poter vivere una tutto sommato spensierata adolescenza, passano gran parte del loro tempo lavorando, spesso svolgendo mansioni “umili” (tolta la retorica del “tutti i lavori sono parimenti dignitosi”, affermazione che mi trova d’accordo, conveniamo che raccogliere pomodori sia fisicamente e psicologicamente diverso da passare giornate a far fotocopie in un ufficio di provincia con aria condizionata che è diverso da fare il “social media manager” per una multinazionale), sottopagati (e spesso in maniera irregolare e super-precaria) ed in condizioni discutibili di sicurezza sul luogo di lavoro. Il dramma ulteriore è nel fatto che, come avviene per i lavoratori maggiorenni, esistono casi di infortuni e morte (e i dati tra l’altro sono molto probabilmente per difetto, perché spesso si ha paura di denunciare). Ora, su questa notizia ci sarebbe sicuramente tantissimo da dire, si potrebbe entrare nel merito delle cause (di cosa porta i giovanissimi a chiedere questi lavori e perché i datori di lavoro assumono questi minori anziché manodopera adulta, giacchè disoccupati non mancano), per poter analizzare in maniera seria e costruttiva la questione. Non una sola parola in merito scritta nell’articolo. Quello che invece viene approfondito, “uscendo fuori tema” (come si diceva quando frequentavo le scuole medie), è “il divario di genere”, ovverosia quella perversa abitudine degli ultimi anni di evidenziare differenze tra i due sessi (in contrasto, tra l’altro, con l’idea di altri “social justice warrior”, che i sessi siano un costrutto sociale), ma attenzione: solo quando è possibile far le vittime nel caso specifico di uno dei due sessi, sempre lo stesso. Attenzione: non sono qui a parteggiare per movimenti degli MRA (e già il fatto che io stia linkando la pagina Wikipedia inglese perché su oltre 20 lingue manca quella italiana, è un sintomo di quanto venga presa a cuore in Italia la condizione maschile) e prendo le distanze in egual modo dalle nazifemministe e dai misogini in stile “incel blackpillati” (termini che introducono ad un fitto sottobosco che non esploreremo qui). Quello che interessa, nell’ottica di pensiero critico, è vedere come una certa propaganda possa distorcere le informazioni.
“Se torturi i dati abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa” è (tradotta) una famosa frase dell’economista Ronald Coase (premio Nobel nel 1991); affermazione che in tanti, tra gli analisti, conosciamo fin troppo bene. Per dare una parvenza di legittimità ad alcune affermazioni, ecco che vengono propinati dati fuori contesto, come appunto in quell’articolo di ANSA che, non potendo evidenziare più lavoratori minorenni di sesso femminile rispetto alla controparte maschili (altrimenti, ne sono certo, sarebbe stato evidenziato anche nel titolo), scrive:
“Il maggiore impiego di lavoratori di sesso maschile entro i 19 anni rispetto a lavoratrici di sesso femminile, mostra la tendenza delle donne a essere più istruite degli uomini; il 65,3% delle donne ha almeno un diploma (rispetto al 60,1% degli uomini); le laureate arrivano al 23,1% (rispetto al 16,8% degli uomini). Il divario di genere nel tasso di occupazione (55,7% contro 75,8%) si riduce al crescere del livello di istruzione (31,7 punti per i titoli bassi, 20,3 per i medi e 7,3 punti per gli alti). Ma per le giovani donne che decidono di abbandonare gli studi, ottenendo al più un titolo secondario inferiore, le possibilità di occupazione rispetto ai loro coetanei maschi sono di gran lunga minori (20,8% rispetto a 41,9%)“.
Togliendo che, come direbbe Antonio Di Pietro: “E che c’azzecca?” (parlare di percentuali di donne laureate o di donne diplomate disoccupate, in un articolo che parla di morti e lavoro minorile), davvero stiamo portando l’attenzione sulla parte che subisce un impatto minore? Qualcuno non ci vedrà nulla di strano, come qualcuno non ha visto nulla di strano nell’assurda dichiarazione di Hillary Clinton:
Rileggiamola insieme: gli uomini (che sono mariti, padri, figli di donne) muoiono in combattimento e questo fa delle donne le principali vittime della guerra. Quale che sia il contesto della frase, qui più che una fallacia logica ci vedo proprio una magia dell’assurdo.
“Ma le femmine a scuola sono più brave dei maschi” ed altre fantasie
Torniamo quindi all’ultimo paragrafo dell’articolo dell’ANSA: quello che viene scritto, “supportato dai dati”, è che le donne sono mediamente più istruite degli uomini e che, nonostante il divario nell’occupazione si riduca al crescere del titolo di studio, le donne sono meno impiegate. Questo potrebbe sembrare un paradosso, ma solo nel caso in cui la premessa sia che la nazione richieda un gran numero di laureati e che il titolo di studio sia effettivamente identico; detto in un altro modo: come se tutti i diplomi e le lauree siano uguali, esattamente come avviene per il titolo di licenza media inferiore. Ci sono invece differenze sostanziali, se si parla di possibilità di lavorare e stipendio medio (fonte):
Ci si è resi improvvisamente conto, dopo aver dato agli informatici e agli ingegneri degli “sfigati” (dei “nerd“, quando non era assolutamente un complimento, ma un sinonimo di disadattati), che in quei settori si lavora tanto e si guadagna bene, si è corsi ai ripari, con quella logica malata che va sotto il nome di “discriminazione positiva“: poiché ingegneria ed informatica son le facoltà che permettono di trovare facilmente occupazione (e ben pagata), son spuntate iniziative che mirano ad aumentare, in maniera assolutamente discriminatoria e sessista (nel senso stretto dei termini: discriminano i candidati in base al sesso), la presenza di donne in facoltà STEM (acronimo inglese che sta per “Science, technology, engineering, and mathematics”) ed in corsi e tirocini (anche finanziati da istituzioni, non solo dai privati).
Accade quindi che in atenei pubblici, come ad esempio al politecnico di Bari, dove la presenza femminile complessiva è del 62% (quindi oltre la metà degli studenti son di sesso femminile), “la copertura delle tasse al 75 per cento per le studentesse iscritte ai percorsi Stem con Isee inferiore a 30mila euro“, anche nella facoltà di matematica, dove “nel percorso triennale si passa dal 51,1 per cento del 2022 al 57“. Ricapitolando: già gli studenti immatricolati alla facoltà di matematica era in (lieve) maggioranza donne, ma le agevolazioni sulle tasse sono previste solo per le femmine, in quanto femmine. Se non fosse chiaro, vista dall’altra parte: hai un pene? Mi dispiace, ma anche se sei in minoranza in quella facoltà, devi pagare molte più tasse. Lo stesso vale per tantissime iniziative anche post-universitarie a livello nazionale e di comunità europea. Tradotto, per la scuola/università, come per l’ingresso in discoteca:
Inutile aggiungere che non esistono casi duali per le facoltà a stragrande maggioranza di presenza femminile: nessun corso di scienze della formazione, psicologia, ostetricia, lingue straniere o lettere, per esempio, offre riduzioni di tasse per iscritti di sesso maschile. Però mi raccomando: “il femminismo è per la parità”. Oltre il danno, la beffa: quand’ero piccolo, continuava a consolidarsi l’idea che le femmine fossero più brave/studiose dei maschi, noncuranti dell’effetto pigmalione che questo creava. Un recente studio (Ilaria Lievore e Moris Triventi, 2022) ha finalmente dimostrato che, a parità di competenze specifiche per materia, è più probabile che gli insegnanti diano voti più alti alle ragazze, dimostrando che questo premio di voto a favore delle ragazze è sistemico.
Dopo la scuola, il lavoro: la favola del “gender pay gap”
Dopo aver privilegiato le donne durante tutto il percorso dell’istruzione, si arriva all’apoteosi: la leggenda del fantomatico “gender pay gap”. Sia chiaro: una differenza di stipendi complessivi (senza quindi tener conto nè di quantità, nè di qualità di lavoro) a parità di figura professionale, tra maschi e femmine esiste. A partire da questi dati aggregati (che, ripeto, non tengono in considerazione diversi fattori, tra cui carico di lavoro, propensione al rischio e a straordinari/turni, risultati forniti e tanto altro), la parte di popolazione che fa fatica col pensiero critico vuole cercare di convincere tutti che occorrano dei “correttivi” o delle misure per avvantaggiare le donne (vedasi ancora: “discriminazione positiva”), tanto che in molti ambienti, poter vantare un alto numero di donne è visto come un traguardo da poter vantare. A scanso di equivoci: non stiamo parlando di parità di possibilità (a parità di meriti) di essere assunti, ci mancherebbe altro, ma proprio di iniziative volte a favorire l’ingresso di personale di sesso femminile solo in virtù del proprio sesso, come fosse una disabilità (il che va anche in contrasto con il precedente assunto smontato, ovverosia della presunta superiorità delle donne in ambito accademico). Si arriva, in casi limite, al punto di discriminare un individuo meritevole, colpevole solo di essere maschio bianco eterosessuale (non è un romanzo distopico, è realtà che ovviamente non finisce stotto i riflettori, forse il maschio adulto non è meritevole d’empatia nè in casi di tragedie nè in simili ingiustizie sociali). E allora si sprecano proteste ed iniziative per incentivare il numero di donne in consigli di amministrazione e politica, nei luoghi in cui non si raggiunge il 50% (fatto curioso: le varie commissioni per la “pari opportunità” sono spesso esclusivamente ad appannaggio femminile e con ministri e presidenti di sesso femminile, mostrando già da qui l’incongruenza dell’applicazione del concetto di pari opportunità). Sarebbe quindi ragionevole pensare, se davvero volessimo un mondo “equo” (dove quindi ogni cosa è esattamente svolta dallo stesso numero, in proporzione, di rappresentanti dei diversi generi o da persone con diverse caratteristiche), che queste “quote rosa” siano fortemente volute anche in altri settori prevalentemente maschili. Questa immagine è caricata direttamente dal sito ufficiale europa.eu (e sorvoliamo sul fatto che non rappresenti “maschi/femmine”, ma sempre e solo dalla prospettiva “delle femmine”):
Sarò stato distratto io negli ultimi 10 anni, ma voi avete visto massive campagne di sensibilizzazione per aumentare la presenza di donne nei cantieri edili, nelle miniere, nella raccolta e gestione rifiuti (soprattutto pericolosi), nei trasporti (soprattutto pesanti e a lunga distanza) e nel settore manifatturiero (tra cui metallurgia)? Per non parlare poi di vigili del fuoco, forze dell’ordine e militari operativi e così via. No, perché tutti questi settori mostrano una presenza percentuale femminile inferiore a quella in informatica e comunicazioni, dove invece si spinge parecchio per “diminuire il divario tra uomini e donne”. E avete visto qualcuno incentivare uomini nel settore sanitario a forte prevalenza femminile? Quest’anno, sempre per citare ANSA, i candidati ai test d’ammissione alla facoltà di medicina in Italia erano per il 70% di sesso femminile: dove sono gli sgravi fiscali per i maschi, in minoranza?
Infine, se volessimo davvero applicare correttivi, si potrebbero anche considerare le differenze fisiche mostrate in tanti studi (tra cui Wang et al., 2020) in cui emerge che (a parità di altre condizioni) una maggiore statura comporta maggiori guadagni, stimando circa +1,3% per ogni centimetro di altezza. Compensiamo dando un bonus a chi ha avuto una genetica sfavorevole in tal senso? E se un gruppo è sottorappresentato (ad esempio: molisani con gli occhi grigi e il nonno falegname), iniziamo campagne di reclutamento per aumentare la loro presenza nei diversi settori produttivi? Comunque, sempre per amore dello spirito critico: non solo una eventuale differenza stipendiale sarebbe illegale nella teoria (nel pubblico e nei contratti di lavoro privati come il CCNL non esistono differenze di paga basate esclusivamente sul sesso), quanto completamente illogica nella pratica. Se io fossi un datore di lavoro e davvero “da donna dovrai lavorare il doppio di un uomo per farti prendere sul serio” (testuali parole tratte dal monologo delirante di una nota “influencer” in prima serata durante lo scorso festival di Sanremo), a questo punto assumerei solo donne, no? Se davvero lavorano meglio e vengono pagate meno, solo uno stupido preferirebbe un maschio.
E, giusto per tornare al tema dell’articolo in apertura (morti sul lavoro, minori o meno), è incredibile quanto le statistiche di genere su morti ed infortuni sul luogo di lavoro non vengano citate, a differenza di martellanti statistiche su altri “gender gap”. Questi morti, a livello mondiale (e l’Italia è perfettamente in media) sono in stragrande maggioranza uomini, ben il 90% – non perché “più distratti” o “più propensi al rischio”, quanto perché, come appena visto, alcuni lavori con un rischio intrinseco elevato vengono praticamente riservati agli uomini. E anche qui, le magie della statistica piegata all’ideologia femminista: un articolo su un sito della RAI (che, ricordo, è contribuita con bei soldi pubblici) non riporta la percentuali di morti ed infortuni in base al sesso, ma evidenzia: “salta all’occhio che a essere aumentati sono stati soprattutto gli infortuni tra le lavoratrici donne (+49,6%, contro il +18,6% registrato tra gli uomini)“. Quinidi, la logica è: se in un anno muoiono 10 maschi ed 1 femmina, mentre il successivo muoiono sempre 10 maschi, ma 2 femmine, l’unico problema è che si è verificato un +100% delle vittime di sesso femminile. E tutti quei maschi? Estiqaatsi… (cit. dal grande capo). Motivo per il quale, su una donna morta in fabbrica si va avanti giorni con servizi televisivi (come è comunque giusto che sia), ma se muoiono decine di uomini poco importa. E per trovare i dati “di genere” in questo caso in cui sono molto più presenti gli uomini ho dovuto impiegare diverso tempo, perché i report son tutti scritti nell’ottica di evidenziare “vittime rosa”. Ah, ecco ad esempio i dati ufficiali INAIL dei decessi per lavoro nel 2019: 1.105 uomini e 100 femmine. Visto che nessun giornale riporta questa differenze, le illustro io per dare un’idea graficamente, accostandolo alla presunta differenza di paghe salariali tra uomini e donne (4,2% secondo fonti ufficiali europee):
Qualora non fosse chiaro: non sono la differenza nei due casi è agghiacciante, ma nel primo caso parliamo di vite umane, non di monetine. E ora onestamente pensate a quante volte sentite parlare di divario di genere in termini di stipendi ed in termini di vite. Poi riguardate questi grafici, così forse avrete un’idea degli effetti della propaganda sulla nostra mente. E non esagero nel chiamarla propaganda, se in quest’epoca di post-verità persino la seconda carica dello stato italiano (presidente del senato, all’epoca Maria Elisabetta Alberti Casellati), ha firmato un comunicato in cui si afferma che le vittime sul lavoro siano in maggioranza donne (mentre abbiamo appena visto che, dai dati ufficiali che forse un rappresentante delle istituzioni dovrebbe essere capace di leggere, risulta che gli uomini muoiono in numero maggiore e nemmeno di poco, ma di oltre 10 volte). Ovviamente, come da buona tradizione politica, una volta ricevute correzioni in merito, il comunicato non è stato modificato (perché che muoiano molti più maschi non interessa ai beoti del pensiero unico), ma direttamente cancellato, non sapendo che fortunatamente è possibile tener copia di vecchie bugie.
I “privilegi” dei maschi
Allo scoppio del conflitto (ancora in corso) tra Russia ed Ucraina, ai cittadini ucraini di sesso maschile ed in età utile al combattimento è stato proibito di lasciare la propria nazione: possedere una vagina permetteva di scappare e cercare rifugio all’estero, possedere un pene (in un’età compresa tra i 18 e i 60 anni) no.
Quello che in pochissimi sanno, infatti, è che in quasi tutte le nazioni del mondo, salvo Norvegia, Svezia ed Israele (dove comunque la durata è 3 anni per i maschi e solo 2 per le femmine), l’obbligo di servire in armi la propria patria è “privilegio” maschile.
La costituzione italiana, ad esempio, all’articolo 52 recita:
“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”.
Quindi, oltre a rimarcare che tutti (anche i civili) hanno il dovere di difendere la nazione (che prevederebbe in teoria anche la difesa dei confini, ma meglio evitare di aprire spinose parentesi), parla del servizio militare obbligatorio che, ricordo, non è “abolito”, ma sospeso dal 2005 (D.Lgs. 8 maggio 2001, n. 215; legge 23 agosto 2004, n. 226). E tale obbligo continua a valere solo per i maschi, mentre le femmine possono decidere se arruolarsi o meno: maschi obbligo, femmine scelta (oltre al fatto che le donne in posizioni realmente operative sono una eccezionale rarità). Giusto aver esteso il diritto di voto anche alle donne (suffragio universale), ma perché alcuni doveri restano invece appannaggio della componente maschile?
Considerati tutti questi gran privilegi dei maschi rispetto alle femmine, c’è chi approfitta di “falle” nel sistema per sfruttare delle vulnerabilità, come è avvenuto recentemente in Svizzera, dove il cambio di sesso è diventata una velocissima e quasi gratuita pratica d’ufficio, portando degli uomini a dichiararsi donne per andare prima in pensione ed evitare il servizio militare (che, come scritto, è prerogativa maschile). Puntando però sul serio alla parità, la stessa Svizzera sta progressivamente portando l’età pensionabile (ora 64 anni per le femmine e 65 per i maschi) a 65 anni per tutti, a prescindere dal sesso (biologico o dichiarato che sia). Chissà se arriverà anche la condizione paritaria per la leva (obbligatoria al momento, e da sempre, per i soli cittadini di sesso maschile). Perché la parità non va chiesta solo per i diritti (ad esempio per il diritto di voto, aperto anche alle donne il 27 novembre 1990 nell’ultimo cantone svizzero che ha introdotto il suffragio universale), altrimenti mi riesce difficile considerare “parità” una situazione di pari (o più) diritti e meno doveri.
Probabilmente non mancheranno casi di cambio sesso anche per ottenere i vantaggi relativi ad “imprenditoria femminile” ed altri sconti/premi in continuo aumento in nazioni come l’Italia. Allo stesso modo in cui (per protesta o meno) alcuni atleti maschi che sostengono di sentirsi donne (ed è insindacabile) strappano senza pietà record femminili, come questa sollevatrice di pesi.
Una sera mi trovavo a cena con delle donne con un alto livello di istruzione; una di loro mi mostrò divertita uno sketch comico discutibile di una donna che spiegava ad uomo come comportarsi con una donna (guai a fare il contrario, sarebbe “mansplaining”). Da quella buffonata trasmessa sulla TV pubblica pagata coi soldi dei contribuenti (esattamente come su quella TV pubblica è andata in onda quella vergognosa scena di Angela Finocchiaro che dice alle bambine che tutti gli uomini, soprattutto i papà, sono pezzi di me*da), si è passati in generale a cercare di capire quanto sia giusto stigmatizzare un uomo per il solo fatto che sia maschio. Dal canto mio, ho cercato di buttarla in caciara per abbassare i toni, soprattutto perché l’argomentazione principale di una di loro era di non saper ribattere – non tanto per assenza di dati in suo favore e di logica a supporto, quanto perché, a suo dire, mi sarebbe servita una serata a teatro con una cazzara come Michela Murgia per tentare di zittirmi a suon di dialettica populista piena di bias e preconcetti sbagliati. Durante la serata, loro cercavano di giustificare alcune discrepanze, come il fatto che la donna raggiunga prima l’età pensionabile perché in qualche modo, nonostante viva mediamente più a lungo, soffra di più gli acciacchi della vecchiaia. Ora, tralasciando il fatto che l’aspettativa di vita media sia un dato oggettivamente quantitativo (le donne vivono mediamente 5,5 anni più a lungo), mentre la qualità della vita è soggettiva e difficilmente quantificabile, davvero le femmine se la passano peggio? Diamo un’occhiata ad un’altra statistica di cui non si parla mai (sempre perché, ovviamente, la parte più colpita è quella maschile): quella dei suicidi. Il tema l’ho anche approfondito parecchio e consiglio (a tutti) la lettura del libro “A Very Human Ending” dello psicologo Jesse Bering. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, nel 77% dei casi il suicida è un uomo. Uno potrebbe sadicamente argomentare che il suicidio sia “una scelta” (anche se ci sono diversi motivi alla base, tra cui la maggiore pressione sociale che grava su un maschio, come hanno capito bene gli “uomini erbivori” in Giappone), ma cosa ci dice la ricerca internazionale sul cancro? Anche in tal caso, l’incidenza è maggiore sugli uomini (206,9 su 100.000) rispetto alle donne (178,1 per 100.000), il che ci porta ancora a riflettere: quanto spesso si parla di cancro per le donne e quanto per gli uomini?
Il doppio standard
Immaginate una persona A dare uno schiaffo ad una persona B. E immaginate sempre la persona A dare un bacio non richiesto alla persona B. Che sia in privato, in un luogo pubblico o persino in televisione. Fatto? A seconda che A e B siano maschi o femmina, il risultato potrebbe cambiare e non poco. Questo è quello che viene definito “doppio standard” (o, in altri termini, “due pesi, due misure”).
Ci sarebbe ancora tanto da scrivere, come l’annosa questione dell’affidamento di figli soprattutto minori (e padri single ridotti in povertà), di maggiore severità di pena a parità di reato, di quanto sia più facile credere per partito preso ad una donna rispetto ad un uomo e di tante altre questioni.
Chi è la vittima?
Come ho scritto all’inizio, non mi interessa parteggiare per una o l’altra fazione, non è una gara a chi sta messo peggio e chi merita più diritti e meno doveri. Ci sono sicuramente differenze nel vivere da maschio o da femmina, considerato che esistono, salvo casi molto particolari, differenze nel corpo (cervello compreso) di maschi e femmine, ma in linea di massima abbiamo tutti (almeno nel mondo occidentale) pari opportunità. A dirla tutta, gli uomini hanno qualche possibilità in meno: ad esempio, i maschi non possono decidere di partorire, a differenza delle donne che, anche in assenza di un compagno, possono avvalersi di un comodo ed economico kit (interessante lo studio in merito di Volgsten e Schmidt, 2021). E dei “fantastici privilegi” di cui probabilmente cercherebbero di disfarsene. Non per questo, però, vanno alimentate pericolose faide tra sessi che, mentre distraggono le masse secondo il sempre valido “divide et impera” da parte di chi realmente detiene il potere (nessun complottismo: parlo della classe politica), alimentano una profonda frustrazione ed invidia da ambo i lati. Nel caso specifico della narrazione mainstream su femmina=meglio, generando un pericoloso sentimento vendicativo di rivalsa da parte delle donne e ingiustificati sensi di colpa nei ragazzi, portando addirittura ad una (giustificata) paura nell’avvicinarsi alle proprie coetanee. E come dargli torto, quando una donna dice che alcuni ragazzini americani sono ormai spaventati anche solo di rivolgere una parola ad una compagna di classe ed alcune invasate rispondono impunemente che è giusto così perché un uomo dovrebbe costantemente avere il terrore di una donna. Un quarto dei giovani francesi ed americani teme che sia un comportamento penalmente rilevante (molestia/violenza) persino chiedere ad una ragazza di vedersi per bere qualcosa insieme!
Possiamo quindi ipotizzare che, continunando questo trend, non ci saranno più problemi e “questioni di genere”: siamo già nella fogna del comportamento verificatasi negli esperimenti (come Universo 25) di John Calhoun, attendiamo insieme l’estinzione naturale, se prima non intervengono cause ambientali o conflitti mondiali.
Chiedo venia nel caso io abbia urtato la sensibilità di qualcuno, ma il pensiero critico produce anche questo effetto. Per chi invece vuole tapparsi le orecchie e non ragionare, libero di tornare ad ascoltare l’assurda propaganda ideologica che ci propinano quotidianamente distorcendo i dati, amplificando il vittimismo e creando una “nuova giustizia” che non tende all’equità e a pari diritti e doveri, ma al femminismo in senso stretto (più diritti e meno doveri per le femmine).
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