Le psicosoluzioni di Giorgio Nardone

Prima di leggere questo libro, è bene ricordare che la psicologia è una “scienza molle”, esistono centinaia di scuole di pensiero. Inoltre, a parità di condizioni iniziali e di risultato che si vuole ottenere, probabilmente dieci psicologi diversi forniranno dieci diagnosi e dieci terapie diverse, non è una scienza esatta. Non esisterebbero altrimenti oltre 500 modelli di psicoterapia (qui una breve lista per chi volesse approfondire alcune terapie). Nardone è fondatore, col compianto Paul Watzlawick, del “Centro di Terapia Strategica” di Arezzo; non stupisce quindi che il libro inizi affermando che sia errato pensare che, se una patologia psicologica sia grave e persistente, occorra una terapia altrettanto lunga e sofferta. Apprezzo però la sua citazione di Occam: “Tutto ciò che può essere fatto con poco inutilmente viene fatto con molto” (un tema, quello della iatrogenia – overintervention soprattutto in ambito medico – caro anche a Nassim Taleb nel suo “Antifragile”). Il libro è suddiviso in tre parti: teoria, intervento e “self help strategico” (autoinganno terapeutico). Tra i vari riferimenti a cui l’autore attinge ci sono i trentasei stratagemmi, dove compaiono diverse strategie per arrivare ad una soluzione tramite un paradosso.

Importante e doverosa premessa: si tratta di psicologia, dove spesso si affrontano disagi che possono essere risolti (anche se non sempre) in terapia; esistono disturbi che hanno forti basi genetiche/organiche che, per quanto possano essere ridotti con l’aiuto di psicoterapia, uno stile di vita sano e pratica mindfulness, possono necessitare, almeno per alcuni intervalli di tempo, di prescrizioni farmacologiche da parte di medici specializzati in psichiatria. Tengo a ricordare che chiunque tenda a minimizzare o stigmatizzare serie e diagnosticate patologie va considerato per quello che è: un cialtrone ignorante; vedasi le infelici affermazioni di ciarlatani come Wayne Dyer (che, ne “Le vostre zone erronee”, ha dichiarato che il malato di cancro sceglie di ammalarsi ed essere malato) o come anche Andrew Tate che (probabilmente per contribuire alla creazione del suo personaggio, tra un ban e l’altro sui social media) ha detto che tutti i depressi sono tali perché lo vogliono loro e che dovrebbero darsi una svegliata – che alle mie orecchie suona come: “ehi, tu che sei amputato ad un arto inferiore, smettila di sentirti zoppo ed inizia a saltare!”.

1- La teoria

Viene ricordato il pensiero di Locke, sul fatto che riteniamo folli coloro, partendo da premesse sbagliate e usando una logica corretta, giungono a conclusioni erronee, ma il problema è che la realtà cambia in base al punto di vista con cui la si osserva (concetto sul quale si sono espressi diversi fini pensatori); quindi Nardone, appurato che non esiste una conoscenza “scientificamente vera” (come vorrebbero correnti deterministiche o positiviste), cerca di focalizzarsi sulla conoscenza “idonea” per gestire la realtà con la quale interagiamo (costruttivismo per perfezionare la nostra consapevolezza operativa). L’autore cita i principi di relatività (Einstein) e indeterminazione (Heisenberg) che portano la scienza moderna ad orientarsi verso conoscenze strumentale e operativa, allontanandosi dalla ricerca della verità assoluta (e qui aggiungerei, in tema di relativismo, anche Cartesio e Galileo) e cita anche il trattato sulle posizioni indecidibili di Gödel e l’approccio di adattamento alle realtà parziali di Ernst von Glasersfeld (che rinunciava a definizione e perseguimento di ontologie per abbracciare il costruttivismo). Per estendere il concetto, aggiungerei anche la nota parabola dei ciechi e l’elefante.

Parabola di sette ciechi e un elefante in un tempio giainista

Alla parabola aggiungerei anche tutti i discorsi sulla percezione anche quando si tocca/osserva lo stesso oggetto, ma eviterò di complicare ulteriormente il discorso.

Tornando invece al discorso dell’applicazione di propri ragionamenti tecnicamente corretti, ma basati su assunzioni errate, questo meccanismo, soprattutto se persistente, può costituire una patologia: una tentata soluzione che non funziona, se reiterata, non solo non risolve il problema, ma lo complica (mi verrebbe da fare il solito paragone con la mosca che continua a sbattere contro il vetro, ma ogni volta facendosi più male). Si innescano spesso, infatti, circoli viziosi in cui ad esempio il fobico cerca di evitare situazioni che innescano la paura, ma l’evitamento incrementa la reazione fobica. Paradossalmente, se qualcuno intorno a lui prova ad aiutarlo, si incrementa maggiormente il fenomeno, perché il fobico riceve così ulteriore conferma che da solo non ce la farebbe. Il continuare indefessi con le stesse reazioni è causato dal fatto che, in situazioni simili in passato, reagire in quel modo è stato (o almeno è parso) la soluzione ottimale (o la meno peggiore); ma la stessa soluzione, applicata in un contesto diverso, può diventare una pessima soluzione (pensiero condiviso anche dall’ACT, v. “The Happiness Trap”). Il cervello umano cerca automaticamente di “riconoscere” una situazione nuova e attiverà l’euristica che solitamente ha utilizzato in passato per risolvere un problema analogo, anche quando le differenze possono essere sostanziali (v. “Pensieri, lenti e veloci”); per questo, è importante conoscere quanti più modelli mentali possibile (v. “The great book of the mental models”) e applicare soluzioni in maniera elastica e a volte creativa (altrimenti, come dice un noto proverbio: se l’unico attrezzo che hai a disposizione è un martello, tutto si sembrerà un chiodo). In breve: le “tentate soluzioni” diventano il problema. Come mostrato da diversi interessanti esperimenti, non solo il cervello cerca sempre dei pattern, ma prova anche a fornire (in modo a noi conscio o meno) delle spiegazioni anche quando non c’è alcuna reale associazione; il problema, è quando poi le persone si autoconvincono delle loro stesse motivazioni ed è difficile spiegare loro che in realtà non c’era alcun collegamento logico (come sa chiunque abbia avuto a che fare con dei complottisti o di chi porta avanti delle battaglie da SJW, cercando – e quindi “trovando” – ogni tipo di “prova” a supporto). Come scriveva Nietzsche in “Filosofare con il martello”: “Ricondurre qualcosa di sconosciuto a qualcosa di conosciuto solleva, tranquillizza, appaga e dà anche un senso di potenza. […] una spiegazione qualsiasi è meglio che nessuna spiegazione” (il che rende chiaro anche perché in tantissimi contesti è più apprezzato chi risponde con una qualunque idiozia anziché correttamente rispondere: “non lo so, mi informo”… il capo vuole essere tranquillizato, piuttosto preso in giro, per sentirsi rassicurato che sia tutto sotto controllo, che non stiamo miagolando a dentoni nel buio). Nardone sostiene, a differenza di esponenti di molte scuole psicologiche, che non c’è connessione causale lineare tra l’origine di un problema e la sua persistenza (a differenza invece di quanto credono correnti di pensiero vicine ad esempio a Freud, andando ad indagare sempre e solo le cause, sperando di poter intervenire indagando sul passato), quindi occorre focalizzarsi sul presente, sulle modalità in cui emerge un problema ed evitare il suo reiterarsi. Poiché assume un ruolo fondamentale la percezione, il terapeuta cerca di entrare nella logica del paziente anziché imporgli il suo modo di vedere le cose; indaga nel passato del paziente solo per capire meglio le dinamiche del problema, ma focalizzandosi piuttosto su come la persona (e i suoi cari) provano a risolvere il problema senza riuscirci (tentate soluzioni che alimentano il problema). Stabiliti gli obiettivi col paziente, il terapeuta apre nuove prospettive con forme di comunicazione suggestiva per arrivare in breve (già dopo 4 o 5 sedute) a miglioramenti concreti, che portano anche ad un innalzamento dell’autostima. Se il cambiamento non è visibile in breve tempo, probabilmente la terapia è sbagliata, per questo il terapeuta deve anche possedere un repertorio abbastanza ampio di modelli e terapie (da perfezionare o cambiare radicalmente quando si incontrano casi inusuali). Nardone cerca di sfatare il mito della psicoterapia vita natural-durante (come comicamente compare in alcune battute di Woody Allen) citando uno studio (Shazer, 1988) che, analizzati 500 casi, ha notato come il 75% delle votle si è giunti a guarigione con una media di 5 sedute.

2 – L’intervento clinico

Seguono esempi pratici di applicazione in casi reali (a volte, introducendo in terapia il paziente con l’inganno, ad esempio dicendogli/le che si faranno delle domande per aiutare un suo caso che ha problemi). A volte può sembrare si stia assecondando un pazzo, come nel caso di un paziente affetto da paranoia persecutoria, in cui il terapeuta suggerisce di rivolgere dei fari verso il soffitto per accecare eventuali telecamere (fari che poi il paziente spegnerà automaticamente dopo qualche giorno, ipotizzando di essersi immaginato sin dall’inizio di essere spiato); ma con meccanismi simili (ovviamente usati in maniera innocua) si porta il paziente a capire da solo che i suoi assunti erano infondati e quindi, tramite paradossale saturazione, si arriva alla rottura del meccanismo e alla guarigione.

Alcuni casi riguardano fobie (degli specchi, di uscire da soli), altri ossessioni e compulsioni (dove il paradosso di sforzarsi di ripetere a comando l’immaginazione delle proprie fantasie peggiori; moltiplicare lo stesso gesto per cinque volte, come il lavarsi le mani per chi sente l’esigenza di farlo spesso), manie e paranoie (in alcuni casi trattabili con il pensare e agire “come se”, un po’ come il noto detto americano “fake it till you make it“), disturbi alimentari (chiedendo ai familiari di assecondare gli anoressici iniziando a non apparecchiare più per loro – e anzi, alla domanda “non apparecchiate per me?” rispondere con un secco “tanto tu non mangi”, facendo finta di comprendere e condividere il punto di vista dell’anoressico; idem per i pazienti bulimici che vomitano, cercare di “dare loro una mano” nella stessa direzione, quindi chiedendo “cosa vuoi mangiare e vomitare oggi?” e in generale comprando quantità abbondanti di ciò che il figlio solitamente usa per abbuffarsi).

Si riportano poi casi tipici di depressione (dove solitamente il soggetto tende a fare la vittima, controbilanciata dalle consolazioni protettive di amici e parenti), dove una soluzione (simile a quella utilizzata per ossessioni e compulsioni) è quella di fissare diversi “appuntamenti” al giorno in cui il paziente si lamenta di tutto coi parenti mentre loro ascoltano per l’intervallo temporale prestabilito. Oppure, sempre per aiutare i depressi, assecondarli con frasi come “la vita è una valle di lacrime, siamo tutti come Sisifo” e così via, arrivando al paradosso in cui il paziente consolerà il terapeuta dicendo che in realtà non possiamo lamentarci, la vita non è così male. In maniera simile, si prescive alle coppie litigiose di recarsi in una specifica stanza del loro appartamento per litigare (senza limitarsi nel litigio, ma ogni volta che si vuole litigare, ci si deve recare in quella stanza; se si è fuori casa, si aspetta di tornare); spesso la coppia trova in breve tempo quanto sia stupido o ridicolo e smettono di litigare con quella frequenza. Per coppie che invece non si parlano, prescrivere sessioni periodiche (es.: 15min al giorno a testa) in cui uno dice all’altro tutti i motivi di rabbia/rancore e viceversa; si nota, dopo breve tempo, che si torna a parlare, aprendosi anche nell’esprimere affetto.

Seguono casi di “blocco di performance” (sportive o parlare in pubblico o scrivere tesi).

3 – Il “Self-help strategico” e l’autoinganno terapeutico

L’ultima parte inizia con la citazione:

“Tutti i nostri rancori derivano dal fatto che, rimasti al di sotto di noi stessi, non siamo stati in grado di raggiungere la nostra meta. Questo non lo perdoneremo mai agli altri”

(“Sillogismi dell’amarezza”, E.M. Cioran)

Ciò che l’autore rimarca è che la nostra mente può (nei limiti) creare e risolvere problemi, in quanto siamo in gran parte artefici attivivi dell’interpretazione della nostra realtà; Nardone precisa anche che aiutarsi da soli può funzionare solo fino a quando il problema costruito non sia giunto ad una persistenza e rigidità tale da chiedere l’aiuto di un esperto.
Viene citato più volte Nietzsche, in particolare in merito alla nostra conoscenza “indiretta” di noi stessi, in base alle manifestazioni di noi in alcune situazioni e stati d’animo (e aggiungerei anche la Johari window per la quale abbiamo degli angoli ciechi che nè noi nè altri conoscono). Studi di Davidson e Ainslie (e altri) hanno messo in luce come il nostro cervello ci autoinganna, tendendo ad indentificare la realtà in accordo ai nostri desideri (il cervello predilige pigramente ciò che conferma quanto già appreso, finendo spesso nelle profezie che si autoavverano). Il fenomeno è amplificato nelle bolle di cui facciamo parte: single che celebrano tra loro i vantaggi di non essere in coppia, credenti di una setta che si lodano a vicenda (e tutti quei fenomeni meglio descritti in “Loneliness” di Cacioppo). Pascal notava inoltre che ci si persuade meglio con le motivazioni a cui siamo giunti da noi, piuttosto che con quelle che provengono dall’esterno. L’autore riporta brevemente i risultati dei noti esperimenti sull’effetto Pigmalione, effetto placebo, effetto alone e tanti altri, in cui si dimostra che la percezione può essere falsata anche a fin di bene, per poi suggerire alcune pratiche indicazioni per l’auto-aiuto:

  • Rilevare le proprie tentate soluzioni (che hanno funzionato o meno, cercando di individuare i pattern – Laborit ha dimostrato che il cervello crea dei circuiti che poi vengono percorsi più o meno in automatico, se non ci si fa caso).
  • Incrementare le possibilità di scelta (sforzarsi di individuare almeno altre 5 possibili soluzioni rispetto a quella che adottiamo più spesso).
  • Notare che ogni cosa conduce ad un’altra cosa (e concentrarsi sul più piccolo comportamento/situazione modificabile).
  • Tecnica dello scalatore (immaginare la propria catena di eventi a partire dalla vetta, quindi dalla situazione finale, per arrivare passo passo al punto di partenza).
  • Chiedersi come peggiorare la situazione (“se vuoi raddrizzare una cosa, cerca prima di storcerla di più”, Lao Tsu).
  • Immaginare lo scenario oltre il problema (es: cosa faresti se ti svegliassi senza avere più quel problema?).
  • Provare la tecnica del “come se” (agire chiedendosi: “come mi comporterei in questa giornata se non avessi questo problema?”).
  • Immaginare le peggiori fantasie
  • Evitare di evitare
  • Sforzarsi di non sforzarsi
  • Incorniciare i ricordi
  • Abbracciare il sano egoismo
  • Prescriversi la fragilità

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.