Il libro che ho letto questa settimana è uno dei tanti libri che ricadono in quell’intersezione di categorie “business”, “comunicazione”, “auto-aiuto” e “crescita personale” un tanto al Kg. Mi ci sono imbattuto perché purtroppo “Kindle unlimited” (che ho provato gratuitamente e cancellato per delusione), nella sua lista di “oltre un milione di titoli disponibili”, non aveva incredibilmente i saggi della mia lunghissima lista di opere importanti da leggere, ma in compenso aveva titoli come quello di un autore che di certo non ho inserito in lista, ma che ho voluto “testare” perché di tanto in tanto mi piace uscire dalla mia bolla e inciampare in qualcosa che non leggerei mai (anche quest’anno, in mezzo ad alcuni capolavori, ho letto anche certi oggetti che definire “libri” sarebbe un po’ troppo). Lo trovo comunque interessante ed in un certo senso stimolante, un po’ come quando leggo alcune teorie del complotto, un po’ per interrogarsi su qualcosa che difficilmente si mette in discussione, un po’ per cercare di entrare nella mente di chi scrive e chi legge con convizione qualcosa di profondamente diverso dal mio modo di pensare. Ah, breve appunto sul titolo: Segreto (riporto dal vocabolario Treccani): “Un segreto è ciò che si tiene nascosto e non si rivela a nessuno, o che può essere condiviso solo tra pochissime persone”; evidentemente, l’autore del libro sperava di tener “nascosto” qualcosa frapponendo un’invalicabile barriera economica (prezzo copertina flessibile, al momento: una ventina d’euro) o prevedendo che ci saranno “pochissime persone” disposte ad investire tempo e danaro nella lettura di questo libro. Non citerò nè l’autore, nè il libro, non tanto per evitare potenziali polemiche/problemi, quanto piuttosto per non fargli ulteriore pubblicità. Quel che mi interessa, in fondo, è scrivere i concetti, non indicare in maniera specifica qualcuno/qualcosa.
“Ingegneria”, “Scienza”, “Intelligenza”: “Le parole sono importanti!”
Penso chiunque abbia colto la citazione (e come va di more dire da un po’: mi dissocio dalla violenza dell’atto in quella scena cinematografica, a prescindere dai sessi coinvolti). Onestamente rispetto chi la pensa diversamente, come chi professa un culto o una fede religiose di qualunque tipo (purché possibilmente non vada a finire in stragi verso gli altri, come le guerre promosse dalla chiesa cattolica e il terrorismo islamista o verso se stessi come nel presunto suicidio di massa dei 909 abitanti del People’s Temple Agricultural Project); rispetto anche chi crede nell’astrologia, nell’omeopatia, nella numerologia, in flussi esoterici di energie occulte e in tutto ciò che possa aiutare se stessi a dare un senso alla propria esistenza senza nuovere agli altri (Primum non nŏcēre, ma anche vivi e lascia vivere). Quello che però trovo ridicolo e a tratti irritante è il voler a tutti i costi cercare di legittimare correnti di pensiero avvalendosi della scienza. Ecco, iniziamo dal termine scienza, senza scomodare concetti filosofici, ma andando al sodo come riassume Wikipedia partendo da definizioni di enciclopedia britannica e Treccani: “La scienza è un sistema di conoscenze ottenute attraverso un’attività di ricerca prevalentemente organizzata con procedimenti metodici e rigorosi, coniugando la sperimentazione con ragionamenti logici condotti a partire da un insieme di assiomi”. Possono in questa definizione rientrare le “scienze molli”, le “scienze umane” ed anche le facoltà universitarie che abusano del termine scienza come “scienze politiche” o “scienze delle comunicazione”? Non so voi, ma io al termine “scienziato” associo fisici, chimici, matematici, biologi, geologi, astronomi, ingegneri e al limite medici, ma di certo non chi prende ricerche a caso, spesso con un basso tasso di riproducibilità e filtrate da un cherry picking mostruoso, interpretando i risultati a piacere e spacciandoli per “evidenze scientifiche”. Altrimenti guardiamo questo grafico (che dopo anni resta uno dei miei preferiti, insieme alle spurious correlation):
E affermiamo a gran voce: “Consumare più cioccolato fa vincere più premi Nobel”, traducendolo poi in: “Vuoi aumentare le tue possibilità di vincere un Nobel? Mangia più cioccolato!”. Non basta Tutta questa moda di aggiungere un’aura di “scientificità” ad alcune teorie semplicemente prendendo a caso pubblicazioni scientifiche e senza avere una solida base di conoscienze dietro è non solo inutile, ma dannoso. Per poter capire meglio le ricerche in ambito neuroscienze, ad esempio, ho completato (superando i relativi test) una specializzazione di 4 corsi di “Neuroscience and Neuroimaging” della Johns Hopkins University, che consiglio a tutti gli appassionati alla materia. Ora ho una maggiore comprensione dell’argomento e riesco ad interpretare molto meglio gli studi in merito, ma non per questo mi sognerei di definirmi un esperto del settore. Cosa che invece fanno i vari fuffaroli (o “consulenti strategici”) che hanno letto per caso alcuni modelli (spesso iper-semplificativi) che provano a rappresentare i processi della mente umana (che, come sanno gli scienziati veri, sono in gran parte ancora sconosciuti).
Penso poi non occorra scrivere quanto mi abbia “triggerato” (come dicono i giovani) il termine “ingegneria” usato a sproposito dall’autore nell’inventare un acronimo per definire il suo concetto di “scienza applicata” alla sua teoria sulle interazioni umane in tema di comunicazioni. Noi ingegneri possiamo (a fatica) accettare al limite gli “ingegneri gestionali” (ma che vediamo un po’ come gli scienziati veri vedono gli “scienziati politici”), ma se poi si applica il termine anche in maniera casuale a tutto ciò che abbia vagamente delle strutture e dei processi, allora vale tutto. E ci credo anche che l’autore si consideri un “pioniere nell’intelligenza linguistica”: come ho già scritto in precedenza, consiglio a tutti di leggere quanto analizzato in merito alle intelligenze multiple (di Gardner e compagni) nel libro “In the know: debunking 35 myths about human intelligence” di R. Wayne, 2020.
Riassumendo: seguendo la stessa logica dell’autore del libro di fuffa che ho letto la settimana scorsa, oggi potrei proclamarmi un pioniere nel campo dell’intelligenza rotolistica, inventando un sistema (pseudo-)scientifico da esporre in manuali di “ingegneria del come disporre la carta igienica nel proprio bagno” (sperando di non offendere qualche interior-designer).
Gli effetti delle parole sui “tre cervelli”
Uno studio è uno studio, non si può dir nulla: nel meraviglioso “mondo dell’Internet”, è possibile trovare ad esempio mappe, riassunti, schematizzazioni e lunghe discussioni in merito ad ogni possibile opera anche di fantasia (nel senso stretto del termine: pieno di appassionati di genere “fantasy”). Il che dimostra che la parola studio, di per sè, non implica che ci si focalizzi soltanto sul rigoroso sapere scientifico. Il problema, come scritto pocanzi, è semmai se si cerca di legittimare con presunte “evidenze scientifiche” alcuni concetti che restano una teoria o un lavoro di fantasia. Non ci vedo molta differenza rispetto al caso contrario delle famose truffe derivanti dal dire che “se 1Kg di sale non si è sciolto completamente in un 100ml d’acqua (fenomeno totalmente spiegato dalla scienza), allora hai delle energie negative che posso estirparti mentre ti estirpo svariati denari”. Nel caso del libro in questione, l’autore propone di apprendere i suoi contenuti per migliorare le proprie competenze in tema di comunicazione e quindi di guadagnare tempo e denaro dall’applicazione, con tanto di decalogo, checklist e persino “valutazione” numerica (sempre per fornire quell’aura di scientificità). Mancano solo formule matematiche per completare il quadretto della perfetta applicazione di autorevolezza di facciata per sprovveduti.
L’autore cita come “maestri” anche personaggi cinematografici della cultura popolare, il che lascia intendere anche il previsto target del libro, che in effetti è in linea con le mie aspettative (non mi sarei aspettato un’opera da proporre ad un convegno di accademici). È inoltre pregno di stereotipi (culturali, di genere, ma anche tanto altro) e vittima di uno dei più grandi bias: confondere la mappa col territorio (soprattutto se sono mappe incomplete, non aggiornate e a bassissima risoluzione). Tra i modelli generali presi come riferimento c’è quello del cervello trino elaborata da MacLean negli anni ’60 (ben prima dell’esistenza degli attuali sistemi diagnostici per validare o confutare alcune ipotesi semplicistiche come quella), quindi l’autore sostiene che la parte “rettile” subito capisce se fidarsi o meno in base ad alcune parole che sente, la parte limbica coglie le emozioni comunicate nel messaggio e la neocorteccia, che dovrebbe invece analizzare razionalmente i pro e i contro, è quella “più debole”. L’autore infatti dice che ci si fa sedurre di più dalla sensazione di un oggetto da comprare (e dalle emozioni scaturite dalle pubblicità) che non dall’analisi di pro e contro. In questo caso, o l’autore sbaglia o io non sono un essere umano: l’ultima automobile che ho acquistato l’ho scelta esclusivamente in base a parametri analitici (come sicurezza, prezzo e prestazioni), valutando per ultimo l’impatto delle “emozioni” (oltre al fatto che ho preso un’auto del cui marchio non credo d’aver visto spot pubblicitari almeno negli ultimi 20 anni). Il che ci riporta all’importante introduzione di questo post: qui si sta parlando di teorie di “scienze molli”, che possono valere al limite statisticamente per una certa percentuale di un campione di persone e soltanto sotto certe specifiche condizioni che sono anche difficilmente replicabili. Viene citata anche la retorica secondo Aristotele, con ethos (autorevolezza di chi parla), logos (contenuti del messaggio) e pathos (emozioni da suscitare nell’ascoltatore). Come molti “practitioner” di quella pseudoscienza che è la “programmazione neurolinguistica”, anche quest’autore cita il Milton Model, una fantasiosa interpretazione degli studi dello psichiatra e psicoterapeuta Milton Erickson (noto per l’ipnosi) ad opera di due simpatici personaggi così affiatati che, dopo aver fondato una pseudoscienza, uno ha intentato una causa milionaria contro l’altro.
Si parla poi di richiamo a valori universali (mia nota: vedasi gli spot di gente sorridente e cordiale, i quadretti familiari dei politici, il greenwashing delle aziende, la pace nel mondo sperata dalle varie reginette dei concorsi di bellezza, le copertine paradisiache degli opuscoli religiosi e tutto quanto piace alle “anime belle”), lo storytelling per il sistema limbico (agli umani piacciono le storie, ma anche qui assicuro che ci sono eccezioni, alcuni trovano le storie noiose), figure retoriche come l’anafora (mia nota: che fanno il successo delle “greatest hits” religiose, con tutte le litanie che tanto piacciono ai devoti, ma anche qui: c’è chi trova le ripetizioni terribilmente fastidiose), linguaggio generativo, constrasti emotivi (con le due solite leve di scappare da ciò che non ci piace e andare verso ciò che ci piace).
La fiera di ovvietà mista a nonsense continua dicendo che “il tre è un numero magico” (in realtà, non lo è: numeri magici sono 2, 8, 20, 28, 50, 82, 126 e forse il 184) e il fatto che l’autore non sia uno scienziato è evidente anche dalla sua affermazione che il tre sia il valore del pi greco (probabilmente potrò chiedergli di regalarmi 0,14159 miliardi di euro, visto che per lui ciò che viene dopo la virgola non fa troppa differenza), oltre al fatto che sostiene che non ci facciamo convincere dai numeri. Ignorerò la sua affermazione sul fatto che “evidentemente non rispettiamo i limiti di velocità” (cosa che invece osservo da due decenni di guida), ma l’autore ignora un concetto fondamentale: un conto è leggere i numeri ed un altro è capirli; la maggior parte delle persone è matematicamente analfabeta, ma non è una questione di cervello, bensì di istruzione e competenza (e non intendo istruzione formale, giacché esistono laureati in economia non molto appassionati di matematica e che possono facilmente imbrogliarsi anche su ragionamenti/calcoli elementari). Esce poi il discorso delle frasi bilanciate (mia nota: e anche qui, le frasi ad effetto, i proverbi e le filastrocche piacciono alla gente semplice, altro che neocorteccia sviluppata) e immancabile le “call to action” (frasi che dovrebbero generare azioni, come le nausanti “commentate qui sotto”, manca solo “spolliciate di like”).
Quali gruppi di parole funzionano e quali no
Sì, le parole sono importanti l’ho già scritto prima, ma qui l’autore cerca di convincerci che alcune parole funzionino ed altre no, il che mi ha ricordato modello di linguaggio liminale, subliminale e superliminale come visionabile in quest’altro reperto scientifico:
Tornando seri, è noto che esprimere un concetto in maniera positiva o negativa, ad esempio comunicare di avere, a seguito di un intervento, una probabilità del 95% di sopravvivere o 5% di morire può avere un impatto diverso se si comunica con pazienti o familiari non particolarmente avvezzi al pensiero critico e al ragionamento scientifico; così come esprimere percentuali di guadagno/perdita possono avere impatto sulla propensione/avversione al rischio (consiglio di (ri)leggere il sempre valido capolavoro “Pensieri, lenti e veloci” di Daniel Kahneman). Come anche è apprezzabile, dopo decenni di arzigogolati regolamenti burocratici scritti probabilmente sotto l’influsso di pesanti acidi, il ministro per la “funzione pubblica” Franco Frattini che nel 2002 ha provato a contrastare il burocratese emanando una salvifica direttiva per semplificare i testi amministrativi. Ciò che invece non è generalizzabile è quanto emerso dallo studio di Lakoff che l’autore cita per “dimostrare” che la maggior parte dei costrutti e delle metafore sono universali, cioè trasversali alle culture (un po’ come avviene invece per le espressioni delle emozioni primarie). Quindi l’autore continua con un elenco di parole positive e parole negative, una dicotomia che mi ha ricordato un concetto espresso in “The happiness trap”, ma anche in diversi libri sulla mindfulness: non è una parola (nè tantomeno un’emozione) ad essere positiva o negativa, quanto piuttosto la nostra reazione (e, aggiungerei, anche il contesto). D’accordo che ad esempio una narrativa associata alla guerra (che, per quanto mi riguarda, vieterei a chi non ha mai indossato un’uniforme in vita sua) non fa bene nè che si parli di “combattere il cancro”, nè che sia “dichiarare guerra alla concorrenza”, ma cercare costantemente il lato politicamente e luminosamente corretto nel descrivere cose e situazioni non cambia la realtà (probabilmente, una persona affetta di disabilità fisica preferisce esser chiamata “diversamente abile” in un documento anziché “storpia”, ma molto probabilmente preferisce che il documento porti un messaggio ed un contenuto concreto, piuttosto che solo belle e vuote parole). Nel libro, si citano esperimenti di Asch e Berg sul fatto che (statisticamente, non in maniera assoluta) si preferiscano parole associate al caldo piuttosto che al freddo. Si parla anche del noto senso di reciprocità (il sentirsi in obbligo / in debito dopo un regalo anche minimo) e dell’importanza delle parole quando si presenta un aroma (nota mia: cosa che sanno bene i sommelier e i ristoratori “di classe” che descrivono con cento parole un piatto che in un’osteria concentrata sul contenuto ha un costo direttamente proporzionale alle parole spese per descriverlo) ; si continua poi con ciò che è noto in campo medico, ovverosia che la creazione di una certa aspettativa nel paziente influisce sulla cura (nota mia: oltre a raccomandare la lettura di “The elephant in the brain” in merito all’effetto “kiss the boo boo” e alla spesa medica, direi che c’è un motivo per il quale l’effetto placebo è da tantissimo tempo oggetto di studi, non occorreva ‘sto genio).
Si estende poi il concetto dalle singole parole alle famiglie di metafore da utilizzare, tra cui quelle col corpo umano, cibo, viaggio, sport, guerra ed altri campi (nota: spesso include in “metafore” anche modi di dire e locuzioni di uso comune)
Testi brevi ed incisivi perché siamo tutti distratti
In un’epoca in cui la soglia dell’attenzione decade prima della durata di un video di uno sculettamento su Tik Tok ed in cui i 160 caratteri degli SMS (per chi se li ricorda) ora sembrano anche troppi, l’autore prende delle regole di Calvino del 1985 per dirci che un testo efficace dev’essere privo di fronzoli e corto perché la gente non ha tempo da perdere, tanto che verifica se riesce ad esprimere un concetto in 140 caratteri (la lunghezza massima dei caratteri in un “tweet” durante il primo periodo del social network Twitter). Probabilmente, per l’autore siamo tutti affetti da ADHD, ma a me onestamente il fatto che la maggior parte degli utenti di Internet non legga articoli lunghi come quello che sto scrivendo importa anche poco, anzi, la vedo in modalità opposta: se non riesci a mantenere la concentrazione per la durata dei miei articoli, meglio che tu chiuda la finestra su cui stai leggendo, perché vuol dire che non rientri nel mio target, puoi tornare a scorrere video buffi di gattini e leggere pilloline compresse in meno di due frasi, così puoi riassumere concetti complessi in maniera adatta al tuo cervello, come “guerra, brutta!” o “mondo, grande!”. Poi si parla di esattezza e di creare visioni precise, ma l’autore cerca di distaccarsi dalla suddivisione in canali visivo/uditivo/cinestesico perché dice di aver scoperto che la PNL (la pseudoscienza prima citata) non ha validità scientifica – peccato non solo che poco prima abbia prima fatto affidamento sul Milton Model che, come ho scritto prima, è stato creato proprio dai fondatori della PNL sulla base di deduzioni fantasiose dei lavori di un noto psichiatra, ma che il suo ultimo libro con un enorme “PNL” scritto in copertina è proprio dell’anno precedente alla pubblicazione del libro che sto commentando ora! Seguono un po’ di pagine piene di parole adatte ai diversi canali (quando due pagine prima aveva scritto che la suddivisione in canali è pura fantasia); ironico, quindi, che l’argomento con cui chiuda il capitolo sia la coerenza.
Individuazione di schemi che funzionano e storytelling
Immancabile poi la parte in cui l’autore dice di aver identificato dei pattern, alla stregua degli “espertoni SEO” che dicono di aver trovato la ricetta segreta per “battere l’algoritmo” : pattern ipnotici, retorici e semantici.
Prosegue poi con i modelli del raccontar storie, tra cui sparklines (contrapposizione tra la realtà e la condizione desiderabile; mia nota: come le classiche televendite anni ’90 della situazione attuale in bianco e nero e il futuro a colori dopo aver comperato il prodotto magico o i sempreverdi volantini religiosi che contrappongono il mondo pieno di guerre e malattie che viviamo e il paradiso di come sarebbe se obbedissimo alle regole divine), la solita montagna (in cui il protagonista affronta le difficoltà per arrivare in cima), il viaggio dell’eroe (con le tappe di chiamata, rifiuto, varcare la soglia, sfidare e fallire, nuovi membri e risorse, sfidare e vincere, condividere il dono). Il tutto, senza dimenticare i “pitch” per vendere un prodotto, un’idea o noi stessi nel tempo di un viaggio in ascensore; ricordiamoci che per l’autore e per tutti i suoi amici esperti di market(t)ing l’importante è sempre vendere o vendersi (che sia vendere la truffa del momento o l’autoincensarsi nel proporsi come il migliore quando in realtà si è delle pippe clamorose, poco importa). Anche perché, in una gara al rialzo, chi invece resta umile e non ama vantarsi viene visto come una persona poco interessante, se non proprio “uno sfigato”.
Sfruttare gli studi altrui per intortare gli altri
La rassegna delle banalità continua rimarcando l’importanza del curare la prima impressione, perché è quella che conta di più. Prende poi spunto dal bel libro sulla persuasione scritto da Robert Cialdini (che in realtà rimarca di averlo scritto come “difesa” alle tecniche utilizzate da venditori ed imbonitori vari) per indicare come “exploitare” a proprio vantaggio i principi di reciprocità, scarsità (percepita), riprova sociale, autorità, gradimento/simpatia e coerenza/impegno. Non manca di provare ad incasellare i principi nel suo amato schema del cervello triuno e correda ogni principio di linguaggio per lui più appropriato. Poi prova anche a spremere e combinare le tecniche in un approccio sequenziale che, a suo dire, funziona sempre, perché fornire motivazione (leve del dolore e del piacere), informazioni, criteri di scelta, referenze e modalità di esecuzione valgono indubbiamente per tutti (secondo l’autore che, ricordo, non solo non ha un titolo di studio valido in materia, ma ovviamente non ha nemmeno firmato pubblicazioni nell’ambito in cui dice di essere competente). Consiglia di iniziare a presentare un prodotto dal generale per poi andare a descrivere il particolare (ma va? non si inizia a parlare così de botto senza senso direttamente di specifiche tecniche a caso ad un interlocutore che non conosciamo?), rassicura con somiglianze per non creare sconvolgimenti per poi evidenziare le differenze (e anche lui ovviamente osanna la nota azienda della mela mezza mangiata per il loro stile di presentazione prodotti con cui riescono ad estorcere danari a persone che non sono particolarmente sagge in ambito tecnologico, coi loro “è come il modello di prima, ma molto meglio!”). Si continua col solito consiglio di dare l’impressione che sia il destinatario a decidere, magari guidandolo sul fatto che lui sa cosa vuole (non vuole di certo sentirsi obbligato a scegliere cosa gli raccomandiamo noi), magari convincedolo del fatto che gli altri (che hanno gabbato prima di lui) sono totalmente soddisfatti del prodotto. Infine, guidare all’azione in modalità attiva/reattiva.
Grafica e linguaggio non verbale
L’autore parla poi dell’importanza di caratteristiche a contorno delle parole, ovvero della modalità di presentazione delle stesse, comprendendo gli aspetti del font (il carattere), le emoticon e le immagini. E anche qui ha dimostrato la sua pochezza, considerato che sui singoli font ci sono persone che si costruiscono un’intera carriera molto ben pagata, per non parlare delle immagini (e ci sarebbero tanti altri aspetti che compongono il layout, ossia l’impaginazione che si tratti di carta stampata, siti web o presentazioni, dagli spazi ai colori).
Call to action
Dopo aver ricordato di descrivere qualunque cosa utilizzando le 5W+H (wow, ma allora è davvero un libro avanzato scritto da un professionista!), l’autore si permette persino di citare Noam Chomsky in merito alla differenza tra struttura profonda e superficiale del linguaggio. Scomoda Chomsky semplicemente per dire che la “call to action” dev’essere precisa e ben specifica. Ciliegina finale, l’autore dice che cerca anche di farsi ripetere dall’interlocutore quello che lui ha appena detto, il che conferma la mia idea iniziale: questo libro è destinato ad una platea di persone che cercano di vendere prodotti (o se stessi) a persone ancora meno sveglie di loro. Chiude con esempi di frasi per farsi rispondere (o far compiere azioni) entra una data stabilita, come fosse necessario un raggiro anziché dire direttamente: la risposta mi servirebbe entro questo giorno. E meno male che prima aveva detto d’esser diretto, breve, efficace e tutto il resto che tanto ha puntualmente disatteso contraddicendosi di continuo per tutto il libro.
Alcune considerazioni finali
Citare un valido riferimento non implica assolutamente una transizione automatica di validità, esattamente come ovviamente per i fuffaroli delle teorie della “mente quantica” che scimmiottano terminologie mutuate da argomenti che affascinano ma che in pochi comprendono (come appunto la fisica quantistica). Quindi il fatto che questo libro abbia citato dei “mostri sacri” non vuol dire assolutamente nulla: io potrei prendere citazioni di un gruppo di saggi per interpretarle a piacere, non per questo il mio libro sarà degno di lettura.
Senza voler offendere nessuno, direi che le regolette esposte siano applicabili generalmente ad una classe di persone poco istruite, quasi totalmente estranee al pensiero critico. Libri come questo non fanno altro che perpetrare quanto di becero già avviene sui social network (che sembrano, finalmente, in fase prossima al declino), in cui si cerca a tutti i costi la polarizzazione, il parlare alla pancia della gente (come sanno bene, oltre ai venditori, quasi tutti i politici, a prescindere da partiti e correnti). Viviamo in un’epoca in cui sempre più hanno successo aziende come quella della mela mozzicata, dove un venditore arrogante come Stefano Lavori è giudicato il genio del secolo, mentre lo si ricorda per una frase non sua (una delle tante cose che ha copiato). Ricordiamoci che non solo personaggi come Wanna Marchi hanno costruito un impero vendendo magia, ma vengono addirittura studiati ed osannati!
Resta poi un problema di fondo: se ci si focalizza sul modo di comunicare anziché sul prodotto e se poi comunichiamo tutti allo stesso modo (non solo la metodologia, ma addirittura le stesse identiche frasi, seguendo le parole da usare e quelle da evitare, nelle liste presentate dall’autore e posizionate anche nell’ordine da lui suggerito), cosa ci distinguerà gli uni dagli altri? Saremo tutti tanti cloni che commercializzano gli stessi prodotti, cosa che tra l’altro già avviene per alcuni promotori finanziari presenti in massa sui social network.
In tema di comunicazione, possibilmente a scopo “difensivo”, non per raggirare gli altri, consiglio la lettura del datato (ma ancora incredibilmente attuale, forse persino più valido rispetto alla sua pubblicazione nel 1984) “Influence: The Psychology of Persuasion” dello psicologo Robert Cialdini (usato invece dall’autore del libro analizzato in modalità “offensiva”, ossia per cercare di ottenere vantaggi dagli altri). Sono interessanti in merito, in lingua italiana, anche alcuni libri dello psichiatra Matteo Rampin ed in generale tutti i libri che analizzano le tecniche di vendita e promozione pubblicitaria.
Più in generale, invece, consiglio la lettura di libri come “The Happiness Trap” e soprattutto la lettura e la pratica di meditazione mindfulness, oltre che di libri di pensiero critico, per aumentare la vera consapevolezza di sè e del mondo circostante, per conoscere meglio le proprie fallacie e fare in modo di minimizzare la propria esposizione e massimizzare la difesa e risposta alle minacce del mondo circostante pieno di affabulatori e specialisti di market(t)ing. Quello che sogno, per dirla come Mogol/Battisti, è un mondo pieno di “gente giusta che rifiuti di esser preda di facili entusiasmi e ideologie alla moda“, dove l’impatto dei modi della comunicazione sia trascurabile rispetto al contenuto. Anche perché, quando vi raggirano a caro prezzo col packaging e con “compri la user experience“, quello che vi resta è il contenuto (quando c’è). Ci siamo così abituati ad essere intontiti da lucine e musichette da non farci nemmeno più caso, pensiamo che sia normale così. Urge una cura minimalista a base di silenzio, sana solitudine, stoicismo e pensiero critico. Solo dopo un periodo di “detox” è possibile rendersi conto dell’inquinamento (a tutti i livelli) in cui viviamo. “Eh, ma se tutti facessero come te, cosa farebbero i pubblicitari e i vari comunicatori?”… si concentrerebbero sui contenuti. Anche perchè, nell’istante in cui sto scrivendo, esiste già una tecnologia che permette di scrivere in maniera molto più efficace (e con molti meno costi e sforzi) ed in diverse lingue, producendo risultati impressionanti: chat bot addestrati dai contenuti prodotti dagli umani e che si aggiornano man mano che le persone li usano. L’unica “salvezza” per gli umani che vivono di comunicazione risiede in qualità che con la comunicazione non hanno nulla a che fare, come lo spirito critico.
Ah, prima ho ironizzato su una “scienza rotolistica”: per gli appassionati di rabbit hole di curiosità come il sottoscritto, pare che il brevetto originale della carta igienica indichi la posizione “originale” nei disegni, ma non è chiaro se l’autore abbia specificatamente indicato se l’altro verso fosse da intendersi sbagliato, quindi direi che sì, in fondo c’è spazio per una serie di libri sull’ingegneria del come disporre la carta igienica, probabilmente ne uscirebbe un metodo più scientifico rispetto a quello sulle interazioni umane proposto dall’autore del libro letto sui “segreti” della comunicazione.
[…] I “segreti” (?) del linguaggio per vendere e manipolare (per capire le basi di ragionamento di parte dei “venditori” di idee e non solo) […]