In base al tipo di cultura e all’ambiente in cui siamo immersi, veniamo su con l’idea che le cose avvengono perché son scritte in un non meglio precisato destino, che la nostra vita sia influenzata dal moto apparente di stelle e pianeti o di un qualche dio guardone e sadico. Queste sono le correnti solitamente più in voga quando si tratta di esonerare noi stessi da una qualsivoglia sfortuna o quando sentiamo il bisogno di ringraziare qualcuno per qualcosa di “fortunato” che ci accade. Esiste poi la corrente di pensiero dell’“homo faber fortunae suae” quando invece ci piace sentirci in controllo di tutto, padroni di ogni aspetto della nostra vita e, quando abbiamo fatto di tutto per meritarci un premio che non arriva, subito a puntare il dito sull’ingiustizia del sistema non meritocratico, perché noi siamo nel giusto ed è tutto il resto del sistema che è sbagliato (anziché far caso alla complessità del sistema stesso, in cui l’effetto farfalla è così potente che basta prendere o perdere un treno per ritrovarsi poi una vita completamente diversa).
Oltre a questi due modi di pensare, piuttosto diffusi, c’è un approccio più realistico, che va sotto il nome di determinismo, qualcosa che merita un approfondimento a parte (che non si limita al solo principio di causalità) che per ora rimando. Per capirne però i rudimenti, andiamo con la mente a quando eravamo molto più giovani: impariamo da piccoli, sia con lo studio a scuola, ma soprattutto osservando l’ambiente che ci circonda, che ci sono dinamiche che avvengono a prescindere dal significato che possiamo attribuire: che sia Apollo a portarlo in alto tutte le mattine o che sia il moto apparente dovuto al moto di rotazione del nostro pianeta, il sole sorge tutte le mattine e, per quanto possiamo sforzarci di farlo sorgere prima o dopo quanto previsto dalla natura, lui ignorerà i nostri sforzi. E le leggi delle scienze dure (es: fisica, chimica) non sono nè soggette a democrazia (a parità di condizioni, un oggetto sulla terra peserà sempre uguale, per quanto qualcuno possa essere un sostenitore della body positivity, la fisica se ne frega di lui e anche dei “grasso-fobici”). Possiamo anche decidere di ignorare l’esistenza della forza di gravità; lanciandoci dalla finestra, però, il suolo ci ricorderà che non possiamo decidere di aver ragione: per quanto possiamo provare ad esser bravi oratori, non ci sono argomentazioni che tengano (l’unica cosa che ci terrà, sarà appunto il suolo, dopo un impatto ben descritto e calcolabile seguendo le leggi della fisica).
Noi come sistemi (quando la fisica incontra la psicologia)
Noi, in quanto esseri umani, sia dei sistemi complessi all’interno di altri sistemi complessi (es.: quello naturale e quello sociale). Come non bastasse, siamo sistemi con memoria (trad.: ciò che avviene in un istante passato contribuisce a ciò che siamo nell’istante presente), soggetti a retroazione (trad: ci adeguiamo a quello che accade, ad esempio dopo una storia sentimentale andata male potremmo decidere consciamente o meno di “attenuare gli input amorosi” in ingresso nella storia successiva, in un maldestro tentativo di sentirci meno vulnerabili).
Non me ne vogliano i ricercatori con decenni di esperienza in psicologia (io son solo un profano), ma potremmo cercare di considerare una specie di modello che comprenda diverse scuole di pensiero, in cui ciò che siamo e le nostre decisioni sono una combinazione, con diversi pesi, di:
- quello che siamo “per carattere”, ad esempio introrversi/estroversi (Jung);
- quello che abbiamo subito soprattutto nelle prime fasi della nostra esistenza (Freud);
- la direzione e la forza con cui ci muoviamo verso qualcosa (la teleologia secondo Adler);
- la nostra ricerca di dare un senso (alla base della logoterapia di Frankl).
In realtà, ci sono anche altri fattori (e le scuole di pensiero in psicologia sono davvero tantissime, anche perché, soprattutto nelle “scienze molli”, diventa difficili trovare qualcosa di “perfetto” e sempre valido).
Se prendiamo ad esempio il personaggio di Novecento, il pianista della famosa storia di Alessandro Baricco, col suo singolare trascorso, al momento emblematico in cui si accinge a scendere la scaletta per iniziare una vita “normale” sulla terraferma, probabilmente si può ipotizzare una figura introversa (senza farsi trarre in inganno dal suo modo eccentrico di rapportarsi con gli altri), segnata dalla paura dell’abbandono; la sua voglia di provare una vita diversa, tra gli altri umani a terra, probabilmente non era sufficientemente forte da fargli vincere la paura del nuovo e dell’ignoto, sopraffatto da una mancanza di confini (era sull’oceano, ma sempre all’interno del conosciuto e rassicurante ferro della nave dalla quale non era mai sceso).
Novecento, quindi, era davvero artefice del proprio destino? Saranno state le stelle o qualche divinità a trattenerlo? Probabilmente, agli occhi di un osservatore esterno, sarà stata una scena surreale, del resto: che ce vo’ a scende du’ scalette? Un’operazione fisicamente quasi banale (a meno di problemi di deambulazione) e psicologicamente affrontata da tantissime persone (come i tanti migranti in cerca di fortuna senza conoscere la lingua, nè avere monete in tasca, come le tante storie che è possibile ascoltare al museo dell’immigrazione di Halifax, Canada), che Novecento prova a spiegare con “non si vedeva la fine”:
Tutta quella città…non se ne vedeva la fine. […]
“Novecento. Un monologo”
Non è quel che vidi che mi fermò, è quel che non vidi. […] ma le vedevi le strade?
Anche solo le strade, ce n’era a migliaia, come fate voi laggiù a sceglierne una
A scegliere una donna, una casa, una terra che sia la vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire.
[…] Non avete mai paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità, solo a pensarla? A viverla…
Io, che non ero stato capace di scendere da questa nave, per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio. Non sono pazzo fratello. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci.
di A. Baricco
Spesso, dall’esterno, sembra facile capire e giudicare le scelte di qualcuno, dal colore della maglietta che ha scelto di indossare al luogo (fisico, ma anche mentale) in cui ha scelto (o non scelto) di abitare. Se però siamo delle scatole nere persino per noi stessi (v. l’Elefante nel cervello), figuriamoci quanto possiamo capire persone che magari, oltre ad esser parecchio diverse da noi, sono anche neurodiverse, per non parlare di chi è affetto da patologie. Ci piace immaginare che sia tutto semplice e lineare, che siamo mossi da desideri simili instillati dalla società occidentale che inculca “valori” spesso di dubbio valore. Sì, in teoria ciascuno è più o meno libero di poter far tutto, un po’ come nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, che proclama il perseguimento della felicità come diritto inalienabile (salvo poi piazzare paletti alla libertà personale che sembrano far tornare la società indietro, vedasi i nuovi casi sull’aborto). Il punto è: siamo davvero totalmente liberi (nel rispetto della legge)? O siamo vittime di condizionamenti mentali anche pesanti, di paure che ci portano a rinunciare a qualcosa o che ci spingono a fare quel che “normalmente” non vorremmo? Sulla carta, il ragazzino che nasce in un quartiere difficile ha le stesse possibilità di chi nasce in centro da una famiglia agiata. Senza giustificare gli estremi o puntare al vittimismo, quanto è davvero vicino alla realtà? Cerchiamo di pensarci un momento, durante la nostra prossima scelta.