Il titolo non è un gioco di parole acchiappaclick. Solitamente non sto “dietro la notizia”: una delle migliori scelte nei miei ultimi 20 anni è stata quella di non aggiornarmi più sull’attualità, quel seguire morbosamente fatti angoscianti di cronaca o l’ultima dichiarazione del tal politico o di tal altro imprenditore (o le due cose in una, tanto per ricordare un noto 86enne recentemente deceduto ed acclamato con tanto di onori nazionali). Da quando son andato via di casa (a 18 anni, per intraprendere la carriera da ufficiale), non ho mai posseduto un televisore, tanto che molto spesso chiunque metteva piede per la prima volta nella casa in cui ho vissuto per un periodo con un mio collega, dopo una rapida occhiata, esclamava: “Ma come? Non avete una TV?” (ricordo molto bene anche una ragazza che aggiunse: “Avete anche due stipendi da ufficiale!”, credendo che la motivazione fosse di carattere economico). Il motivo è che son sempre stato abbastanza critico sugli strumenti tecnologici soprattutto quando “di uso comune” – e il fatto che lo stia scrivendo un ingegnere che lavora da tanti anni con tecnologie informatiche avanzate dovrebbe far riflettere, come dovrebbero far riflettere anche dichiarazioni di personaggi come Eric Schmidt (amministratore delegato di Google per 10 anni) in merito ai pericoli dell’intelligenza artificiale sugli umani. Nonostante io non segua molte notizie, comunque, ieri m’è subito balzata all’occhio una che m’ha fatto risuonare il bias di conferma: “Realtà virtuale al pronto soccorso e i bambini non piangono più: i giochi interattivi abbassano la percezione del dolore e l’ansia”. Detta brevemente: al Pronto Soccorso Pediatrico del Policlinico Gemelli (Roma), i bambini vengono distratti con dispositivi di realtà virtuale che funzionano, quindi, come anestesia.
Riflettiamoci un momento: in un ospedale stanno notando il potere “distraente” di un dispositivo accattivante (uso questo termine qui nel senso di ridurci in cattività). Nel caso di utilizzo “terapeutico” durante un intervento di breve durata (ma anche nei lunghi trattamenti a carattere psicologico, sotto indicazione di un professionista), ben vengano queste tecnologie come sostitutivo (o affiancamento) di farmaci, ma la pervasiva diffusione di questi mezzi non si limita assolutamente all’ambito clinico, come sapranno i fanboy di una famosa azienda dal logo di una mela mozzicata, che ha recentemente mostrato l’ultimo gadget da 3.500€: per l’appunto, dispositivo per “realtà mista” (che comprende aspetti di realtà virtuale). Così i “fortunati possessori” potranno anestetizzarsi a tempo indefinito dalla loro realtà noiosa o dolorosa. Eviterò i noti esempi per cui uno stesso strumento può essere utilizzato a fin di bene o causando danni, perché qui il paragone con eventi di tutti i giorni è sotto gli occhi di chiunque sia uscito a cena qualche volta in Italia (in altre nazioni, soprattutto verso nord, è un fenomeno che ho osservato molto, molto di rado e solitamente erano turisti):
Eviterò di condividerlo qui, ma pochi giorni fa mi son imbattuto nel video di un bambino che piange per terra mentre, cercando disperatamente uno smartphone, mima il gesto di avere uno smartphone in una mano e “interagire”/”scorrere” lo schermo (invisibile) con l’altra. L’ho trovato a dir poco disturbante. E mi son venuti in mente i capricci di bambini a cui si spegne il televisore; una volta ricordo la sorpresa della figlia preadolescente di un amico, quando le dissi che in missione a volte si sta per mesi senza poter scambiare voce o dati (per diversi motivi, tra cui sicurezza delle informazioni) dal proprio smartphone. Il padre mi confermò quanto detto dalla ragazzina poco prima, ovverosia che mostrava segni di evidente disagio nel non poter utilizzare Internet per un periodo anche inferiore alle tre ore quand’erano all’estero senza copertura WiFi.
Degli effetti di vera e propria dipendenza (non molto diversa da quella da sostanze, anche se qui l’agente non è chimico) e della facilità in cui possiamo cadere tutti ne ho già scritto dopo aver letto il libro Dopamine Nation; la differenza è che lo stigma sociale verso qualcuno attaccato alla bottiglia non è lo stesso quando guardiamo invece persone perennemente incollate ad uno smartphone persino quando si siedono a tavola con i propri cari (e prima che qualcuno dica “eh, ma l’alcoolista può fare del male agli altri”, invito a riflettere su quanto scritto dal dipartimento dei trasporti USA: “L’uso di un telefono cellulare durante la guida crea un enorme potenziale di morte e feriti sulle strade degli Stati Uniti. Nel 2020, 3.142 persone sono morte in incidenti automobilistici che hanno coinvolto guidatori distratti”). Non molto tempo fa, ho preso un treno notturno in Italia e ho notato, quindi in piena notte, giovani adulti che lottavano contro il sonno mentre scrollavano senza sosta pagine di roba inutile, a volte saltando compulsivamente da un’applicazione ad un’altra, a volte spegnendo e riaccendendo lo schermo dello smartphone (“smart” in questo caso non si riferisce di certo all’utilizzo). Ciò che cambiava era leggermente la tipologia di contenuti: calcio, auto di lusso, gare di motori, influencer maschio pieno di donne per lui; borse, scarpe, gossip, influencer femmina “sicura di sè” che respinge o schiavizza maschi per lei. Nonostante questo, non spaventano affermazioni, a prima vista ironiche, di personaggi come l’amministratore delegato di una delle più famose aziende woke, Netflix, come “il nostro peggior rivale è il sonno”.
Quello che però pochi sanno è che ad essere molto più vulnerabili a queste tecnologie sono proprio i più piccoli: uno studio longitudinale su centinaia di bambini, pubblicato pochi mesi fa sul Journal of the American Medical Association Pediatrics (Radesky et al., 2023), conclude chiaramente che “l’uso frequente di dispositivi mobili per calmare i bambini piccoli può nel tempo sostituire le loro opportunità di apprendere strategie di regolazione delle emozioni; pertanto, gli operatori sanitari pediatrici potrebbero incoraggiare approcci calmanti alternativi”. Anche in Italia, 5 anni prima, la società italiana di pediatria aveva messo in guardia sull’uso dei dispositivi da parte dei bambini in età pre-scolare, ma era stata molto più morbida: uno studio (Bozzola et al., 2018) che citava anche precedenti linee guida di associazioni pediatriche americane ed australiane, suggeriva solo di evitare completamente l’utilizzo sotto i due anni di età e limitarlo (e supervisionarlo) per bambini fino a 8 anni. Il problema, come ho scritto prima, è che alcuni genitori parcheggiano i figli piccoli davanti alla TV e allo smartphone o tablet, dove a volte incappano in “riproduzione automatica” in contenuti nonsense, discutibili, se non addirittura violenti. Avendo anche studiato lo sviluppo nei bambini, ho ben presente l’impatto che possono avere questi “input” nell’evoluzione; la soluzione non è il parental control che censura in stile Black Mirror, ma una supervisione ed un’attenta selezione da parte di chi si prende cura del bambino (oltre, ovviamente a limitarne le ore di fruizione).
Passività
Limitare le ore davanti allo schermo hanno una doppia funzione: ridurre l’impatto di questi mezzi (di cui conosciamo tanto a livello tecnologico, ma ancora poco a livello psicologico), ma anche liberare del tempo per far spazio ad attività più interattive. Dal punto di vista di interazione, c’è sicuramente differenza tra un lungo trenino di video su Tik Tok (o puntate di una serie) che partono automaticamente senza sosta ed una scelta intenzionale. La differenza più grande, però, è nel tipo di attività: anche se si pensa alla maggiore interazione possibile con uno schermo (ad esempio: videogiochi, soprattutto se con diversi utenti), resta comunque un limitatissimo sottoinsieme delle possibilità di azioni ed interazioni del corpo umano. Già, perché noi non siamo la nostra mente, come non esiste il dualismo “mente e corpo” a cui siamo stati abituati a pensare dai tempi dei detti come “mens sana in corpore sano“: il neurologo Antonio Damasio, nel suo celebre libro “L’errore di Cartesio”, già 30 anni fa evidenziava come la mente sia parte del corpo, un concetto che i buddhisti conoscono bene da secoli. Vogliamo quindi davvero limitare lo sviluppo dei futuri adulti ad un limitato sottoinsieme delle proprie capacità? Che, proprio in virtà del doppio legame tra mente e corpo, creano un circolo vizioso che limita lo sviluppo delle capacità di entrambi.
Ancora una volta, non demonizzo il mezzo, ma l’utilizzo: con il PC, ad esempio, ci disegno e ci suono (sia nel riprodurre musica, sia nell’amplificare la chitarra elettrica, sia per registrarci), giusto per dimostrare che non sono un boomer luddista, ma un giovane consapevole delle potenzialità della tecnologia.
Coerentemente, persone che con la tecnologia ci hanno costruito imperi, conoscono bene i potenziali effetti negativi ed infatti Mark Zuckerberg (Facebook) dice alle proprie figlie di leggere e giocare all’aperto, come prima di lui Bill Gates (Microsoft), Steve Jobs (Apple) e Sundar Pichai (Google) sono molto critici e attenti verso i loro figli in merito al tempo da passare davanti ad uno schermo (come si dice in alcuni ambienti: lo spacciatore non dà ai suoi cari la roba che lui stesso spaccia agli altri).
Altri genitori invece se ne fregano e anzi, hanno creato o potenziato la loro fortuna addirittura con lo sharenting, dove i bambini non solo usano queste tecnologie, ma ne diventano anche oggetto da mettere in mostra. Fortunatamente, alcuni governi riconoscono il problema, ad esempio l’assemblea francese ha votato a favore di una legge per regolare e limitare il fenomeno, chissà se seguiranno anche le altre nazioni, così finalmente la smetteremo di vedere utili idioti che cercano di emulare una nota coppia italiana di una modella e di un (fu) rapper che con la continua condivisione di video e foto dei figli ci fanno bei soldoni – sempre che, come dice il comico satirico Filippo Giardina, i figli una volta maggiorenni facciano causa a questi genitori per togliergli tutto.
Perennemente distratti dalla vita vera nel “qui e ora”
Cerchiamo di continuo qualcosa da vedere e ascoltare, pur di non restare soli con noi stessi, spesso col contenuto di minor valore, per non pensare. Questa, però, è una considerazione che merita uno spazio a parte, dove probabilmente approfondirò i temi degli effetti di dispositivi mobili e soprattutto social network, su adolescenti e adulti.
Ora invece smetto di scrivere e torno a passeggiare nella natura (e annusare, toccare, gustare, oltre che vedere e ascoltare). Prima di rinchiuderci in realtà virtuali, osserviamo in consapevolezza noi stessi e il mondo “fisico” che ci circonda. Con le parole di una bella canzone scout:
“Guarda che incanto è questa natura. E noi siamo parte di lei“.